Da Roma a Torino. Da Firenze alla Pedemontana. Serve un'Italia ad alta velocità
Le lettere del 6 novembre al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Poi dice che aveva torto Fukuyama con la fine della storia…
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Isoardi, Conte assume interim.
Alessio Viola
Al direttore - Il capo politico del M5s nonché vicepresidente del Consiglio e anche ministro del Lavoro e pure dello Sviluppo economico, in una recente intervista (Corsera del 3 novembre) dice testualmente di non ritenere la Torino-Lione un’opera strategica per il paese al contrario, invece, della Tav in Sicilia. Con tutti i guai che hanno in Sicilia vuoi mettere quanto è strategico fare Montelusa-Vigata in 10 minuti di treno.
Valerio Gironi
Dal referendum sull’Atac di Roma alla Tav Torino passando per la Pedemontana e l’aeroporto di Firenze. In fondo il punto è sempre quello: prima ci renderemo conto che il populismo è complice della bassa velocità di un paese e prima l’Italia tornerà a fare qualche passo in avanti per provare ad andare ad alta velocità.
Al direttore - Alla riuscita della giornata dell’Ottimismo hanno certo contribuito le interviste “provocate” da Claudio Cerasa: lo slancio, inaspettato e liberatorio, di Vincenzo Boccia; la sicura fermezza di Marco Bentivogli; perfino i distinguo di Tria sono parsi rassicuranti. Ma sotto sotto, a rovinar la festa, anche quando si parlava d’altro, si aggirava sempre la preoccupazione per il nostro debito. Forse è per questo che Oscar Farinetti ha pensato che il mostro dovesse essere affrontato radicalmente, negandone addirittura l’esistenza. Il debito, questa la tesi che ha illustrato, non è quello che ci viene ripetuto, cioè l’importo della somma dei titoli del Tesoro della Repubblica. Questa, per Farinetti, è solo una parte della storia: perché debiti sono anche quelli contratti dai cittadini e dalle imprese. Quello che conta, secondo lui, è la somma di tutti i debiti, il debito globale. E questo cambia tutto: perché se a raffronto del pil mettiamo il solo debito dello stato, siamo tra gli ultimi della classe nel mondo intero; se invece mettiamo questo debito globale, diventiamo più “virtuosi” di Spagna Francia Regno Unito e Giappone, un filo sotto Cina e Stati Uniti. E allora, che volete da noi? Il giorno dopo lo stesso ragionamento lo si ritrova sul Sole 24 Ore, proposto da Marcello Minenna (“La febbre del debito è ai massimi”). Coincidenza non casuale, paternità evidente. E quindi credo che anche ai foglianti sia utile dire perché quel raffronto è illusorio. Per i mercati il problema non è la dimensione di un debito, ma la sua rischiosità, cioè la probabilità che l’interesse non venga puntualmente pagato e il capitale non sia restituito alla scadenza. Per paragonare il rischio di paesi diversi, lo si mette in relazione con il pil, cioè la misura di quanto un paese produce; dal che si deduce quanto verosimilmente guadagnano cittadini e imprese, quindi quante imposte lo stato può prelevare per pagare, dopo i costi per il suo funzionamento, anche gli interessi. Certo che ci sono relazioni tra debiti, famigliari, corporate e sovrani: è ovvio, ad esempio, che il fallimento di uno stato aumenterebbe enormemente il rischio di impresa (assai meno viceversa). Ma come i prezzi tengono conto di tutte le informazioni disponibili, così gli interessi richiesti tengono conto delle vicendevoli influenze. Altra differenza: ai privati viene sempre richiesto un collaterale a garanzia del credito, mentre la sola garanzia che può dare lo stato è il paese stesso, il Colosseo come si dice con iperbolica sineddoche. Mettere insieme rischi diversi, diversamente prezzati e diversamente garantiti non dice nulla di significativo. Non esiste un rischio nazionale complessivo, e quindi non esiste un rating complessivo. Il ragionamento e la grafica con cui viene presentato alla fine della lunga giornata di Firenze possono fare l’effetto di una piacevole boccata d’aria. Qualcuno dei nostri fantasiosi governanti, c’è da scommetterci, sarà tentato di appropriarsene, e rivenderlo ai suoi fedeli accusando “la speculazione”. Ma non succederebbe nulla: lo spread rimarrebbe dov’è.
Franco Debenedetti