Numeri e realtà. Rubbettino contro la lagna dei giovani che scappano dal sud

Al direttore - Editoriale trionfale sul Rinviato Quotidiano.

Giuseppe De Filippi

 


 

Al direttore - Caro Cerasa, è una cosa seria che le parti – governo italiano e Commissione Ue con le altre istituzioni comunitarie – ribadiscano con pervicacia la necessità del dialogo sulla manovra finanziaria, ma, al tempo stesso, dichiarino intoccabili le rispettive posizioni? Quale finalità perseguirebbe un siffatto dialogo, se non quella di evidenziare ancora più nettamente le relative distanze? Ma, allora, bisogna ritenere che si tratti ancora di tatticismi e che da entrambi i versanti si abbiano delle carte da giocare per arrivare a un punto d’incontro? Vi è un’esigenza di definitiva chiarezza, innanzitutto da parte italiana, che non può essere sottovalutata. Si deve sapere dove si sta andando. Lo impone una elementare “accountability”. Il presidente dell’Eurogruppo, Mário Centeno, ha parlato, riassumendo il sentire della recente riunione, della necessità che governo e commissione cooperino nella preparazione del bilancio “rivisto” e in linea con le “regole fiscali” europee. Come risponde l’esecutivo?

Angelo De Mattia

 

Il governo italiano ieri ha accusato la Commissione europea di “défaillance tecnica” e di “analisi non attenta e parziale” sulle previsioni economiche per l’Italia. La Commissione dice che nel 2019 la crescita dell’Italia sarà dell’1,2 per cento, che il debito pubblico non diminuirà e che il deficit sarà non del 2,1 ma tra il 2,9 e il 3,1 per cento. Il governo dice che la crescita il prossimo anno sarà almeno dell’1,5 per cento e che il debito pubblico diminuirà. Le stime della Commissione europea sono grosso modo simili a quelle del Fondo monetario internazionale, a quelle di Bankitalia, a quelle di Confindustria, e anzi sono persino più ottimistiche. Ma per provare a capire chi ha ragione tra il governo e la Commissione è forse sufficiente mettere insieme alcuni dati. Crescita del pil nell’ultimo trimestre: zero per cento. Vendite al dettaglio a settembre 2018: meno 0,8 per cento rispetto ad agosto. Numero di occupati a settembre rispetto ad agosto: meno 34 mila. A voi la linea.

 


 

Al direttore - C’è un dato che più di tutti induce a riflettere nel rapporto Svimez 2018: negli ultimi 16 anni hanno lasciato il sud 1.833.000 residenti e di questi la metà sono giovani. E’ in questa emergenza demografica la spiegazione del nuovo scivolamento del sud nella spirale del ritardo, dell’impoverimento materiale e culturale, nel degrado. La narrazione dominante li rappresenta come delle vittime, dei nuovi emigranti senza altra scelta che quella di lasciare con immenso dolore la propria terra e i propri affetti. Ma se proviamo a guardare per un istante da una diversa angolazione questo fenomeno ci rendiamo conto che forse una diversa lettura è possibile. Ci si sposta verso altri territori che offrono maggiori opportunità, che riconoscono il valore del merito e per questo sono più appetibili. Ma quei luoghi sono migliori non per delle loro caratteristiche intrinseche ma solo perché i loro abitanti li hanno resi migliori e perché i più bravi non li hanno abbandonati. O almeno non tutti. Non solo la politica (che non va assolta) ma anche i cittadini hanno le loro responsabilità. Per cambiare i territori e renderli migliori serve anche il loro coraggio, serve affrontare la dura lotta tra i fautori dello status quo e della conservazione e chi vuole il cambiamento. E’ una battaglia feroce che richiede coraggio e determinazione. Per dirla in una parola, occorre una cultura civica, che sia in grado di opporre al malcostume sedimentato un ambiente in cui la virtù proattiva di singoli e comunità possa fare la differenza. In che modo? Anzitutto rifuggendo da qualsiasi tentazione assistenzialista. L’assistenzialismo è la vera ipoteca sul nostro futuro. Questo fenomeno esclude chiunque non voglia trovarsi legato al potente di turno e al medesimo tempo include solo a livello di consorterie avide di benefici e privilegi. Normale che da esso si voglia fuggire, cercando un altrove. Proviamo a immaginare cosa succederebbe se anziché fuggire si ingaggiasse questa sfida inedita ed epocale. Cosa succederebbe se chi potesse scegliere restasse nei luoghi e nelle postazioni dove si può innescare il cambiamento? Se si provasse a invertire questo trend negli atenei del sud, nei centri di ricerca, nella sanità, se si fondassero think tank, cooperative sociali, imprese, start-up, dedicandosi all’agricoltura 4.0, alla valorizzazione del turismo e della cultura, alla manifattura senza invocare a ogni piè sospinto anacronistici “aiuti dall’alto”? Questa nuova classe di “colonizzatori” delle proprie stesse terre avrebbe contribuito a creare un contropotere ai mediocri, ai parassiti, ai furbi che si annidano ovunque, ma soprattutto avrebbe costruito delle traiettorie di futuro per sé e per gli altri. E darebbe manforte ai pochi che oggi provano a farlo e soccombono regolarmente. Restando si contribuirebbe a costruire argini, contro le mafie, le burocrazie ottuse e arroganti, la politica inconcludente, contro il disinteresse e la superficialità diffuse. Va da sé che ognuno è libero di scegliere altre strade se non troverà la forza di combattere e se l’incertezza prevarrà sul coraggio. Dovrebbero però risparmiare le prediche a distanza e “l’ogni volta che ritorno mi piange il cuore”. Perché il cuore piange a chi combatte sul campo in solitudine e sa che se si serrassero le file, la battaglia sarebbe vinta.

Florindo Rubbettino

 

Perfetto.

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