Uno splendido slogan populista contro il governo populista: a casa!
Al direttore. Il dibattito alimentato dall'attesa messianica dei risultati dell’ottava o della nona – parola del commissario europeo – valutazione del progetto del Tav Lione-Torino, dall’alternarsi delle prese di posizione degli esponenti del governo sul tema ora viene tenuto in vita dal lancio di un altro ballon d’essai: il ricorso a un referendum. Tutto ciò sarebbe classificabile soltanto come frutto surreale e grottesco del (governo del) cambiamento se nelle stesse settimane lo stesso paese e lo stesso esecutivo non stessero procedendo alla demolizione di circa 900 metri su 1.182 totali del viadotto autostradale sul Polcevera di Riccardo Morandi. Istituzioni e organizzazioni scientifiche, esperti professionisti e personalità con qualche titolo per poter dire la loro – e non solo i professori da talk show sentiti nei giorni della tragedia ed il senatore a vita Renzo Piano – hanno chiesto (e chiedono) che venga valutata la possibilità di restaurare e reintegrare il Viadotto Morandi, e che vengano comparate le alternative tecniche ipotizzabili, sia sul piano dei costi (economici, ambientali) che su quello, altrettanto prezioso, dei tempi. Ma ahinoi anche uno slogan – manutenere/ristrutturare/riusare l’esistente – vale uno (slogan).
Marco Eramo
Io però uno slogan molto populista e molto “de core” ce lo avrei per sintetizzare il tutto. Senta come suona bene: a casa.
Al direttore - I convegni sulle differenze economico-sociali tra le varie parti del nostro paese hanno in genere due assi alternativi. O le recriminazioni del sud, che si sente sfruttato o quanto meno abbandonato dallo stato, o le lamentele del nord per l’assistenzialismo prestato al sud. A questo stucchevole schema ha fatto eccezione il convegno su “L’economia delle regioni italiane” tenutosi qualche giorno fa alla facoltà di Economia di Tor Vergata e organizzato dalla sede di Roma della Banca d’Italia insieme a Giovanni Tria, preside di tale Facoltà ed ora ministro dell’Economia. Il convegno ha infatti evitato di dare spiegazioni causali o di indicare cure dell’eterogeneità delle varie parti del nostro paese, eterogeneità che è molto maggiore di quella esistente negli altri stati europei. E si è impegnato, riuscendovi pienamente, a fornire solo una fotografia precisa e dettagliata della nostra realtà. Naturalmente il tema delle cause dei grandi squilibri del nostro paese e dei possibili rimedi era nella mente di tutti i presenti, per la maggior parte banchieri, e quindi nelle considerazioni da loro svolte dopo il convegno. Le cause, che affondano le loro radici nella storia del nostro paese, venivano per lo più individuate nella mancanza di uno stato federale. La Germania, che come noi ha raggiunto l'unità molto tardi e che ha un territorio solo poco più esteso del nostro, ha uno stato federale: è la conseguenza di un’unificazione raggiunta nel 1871 dopo oltre 36 anni di Zollverein, un’unione doganale che ha avvicinato i 38 stati tedeschi lasciandoli però autonomi. L’Italia invece ha costruito la sua unità con operazioni diplomatico-militari il cui inevitabile risultato è stato la nascita di uno stato unitario accentrato. Le considerazioni che si udivano sulle cause dei nostri squilibri territoriali non sono particolarmente originali. E’ invece rilevante il fatto che, nelle chiacchiere post-convegno, il federalismo sia stato indicato da molti come la politica giusta per cercare di attenuare tali squilibri. Rilevante perché generalmente chi vive e lavora nel Lazio o nel centro-sud teme che da un allentamento del vincolo unitario dello stato possa derivare solo il danno di una diminuzione dei trasferimenti pubblici a favore dei loro territori. Il federalismo veniva invece visto come un'importante opportunità. Innanzitutto per modificare l’organizzazione stessa dello stato ed il quadro normativo, amministrativo e civilistico, rendendoli più adeguati alle aree meno sviluppate. Reggio Calabria o Ragusa non sono Milano, Berlino o Stoccolma e il sistema giuridico, se non si vuole fare del giacobinismo, deve rispecchiare, almeno in parte, i territori amministrati, sia nei loro pregi che nei loro difetti. Francesco Cossiga disse una volta che la crescita in Italia della minoranza islamica avrebbe un giorno imposto addirittura la modifica dell’art. 3 della nostra Costituzione perché la sua affermazione di assoluta uguaglianza sarebbe stata impeditiva di un diritto di famiglia adeguato alla cultura islamica. Il federalismo inoltre può dar vita a una politica economica e tributaria adeguata alle parti meno sviluppate del paese, anche mediante la creazione di aree speciali. In particolare può consentire una politica ed una legislazione del lavoro molto più elastica e quindi capace di stimolare una delocalizzazione da paesi più sviluppati alle parti dell’Italia più arretrate. Insomma una nuova politica di “zone salariali”. E’ difficile spiegare la ragione di questa improvvisa propensione per il federalismo. E’ la sbornia passeggera di chi non sa a che santo votarsi? O l’influenza di un processo che appare in crescita al nord, dove si profila l’autonomia del Veneto? E’ difficile dirlo. E’ però significativo che anche in Campania vi sia un progetto, ancora in fase di elaborazione, per una maggiore autonomia regionale. Chi vivrà vedrà. Ma è importante riflettere in modo nuovo sulle differenze tra le varie aree del nostro paese e sulla necessità di accettare culturalmente tali differenze se ci si vuole incamminare sulla strada di un loro progressivo superamento.
Edmondo Maia Capecelatro