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Prima le europee, poi gli italiani. Lega-Pd per il maggioritario: adesioni

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 19 marzo 2019

Al direttore - Ma era prima gli italiani o dopo le europee?

Giuseppe De Filippi

Prima le europee, dopo gli italiani.

 


 

Al direttore - Caro Cerasa, in un periodo come quello in cui stiamo vivendo, un film che non può mancare nella cultura cinematografica di ognuno di noi, è  “L’odio” di M. Kassovitz. Un film del 1995, il cui protagonista non è altro che l’odio. Un odio cieco che chiama odio: una vita vissuta al limite e immersa nella violenza. Non serve guardare solo alla strage d’innocenti in Nuova Zelanda o a quella di Pittsburgh di ottobre, ma bisogna fare attenzione a ogni atto di intolleranza: gesti alimentati da toni aggressivi che trasformano i migranti in nemici di guerra e il “diverso” in un bersaglio. Bisogna tenere i nervi saldi, vigilare e isolare i predicatori del disprezzo, anche quelli che alimentano e giocano sull’odio razziale e che trasformano la delinquenza in razzismo. Oggi ad esempio, in Italia dobbiamo sapere inquadrare e guardare all’immigrazione nella sua totalità, dove l’arrivo sulle nostre coste è solo la punta dell’iceberg di un tema molto più ampio. I fenomeni migratori sono fatti ciclici e complessi, vanno studiati e compresi al fine d’evitare la conflittualità interna presente ad esempio nelle banlieue di Parigi. Kassovitz aveva già capito tutto 25 anni fa. Oggi i figli di quei ragazzi di 25 anni fa, sono il vivaio in cui le cellule europee dello Stato islamico, attingono per reclutare militanti e autofinanziarsi. Allora se vogliamo un mondo migliore e una società più giusta, dobbiamo rompere il circolo dell’odio e della violenza. Un confronto nato dal seme dell’odio, non potrà che terminare in odio, il rischio concreto è poi seguire il precetto dell’occhio per occhio, dente per dente, con cui si verrà probabilmente ripagati   dal ciclo della storia. Tempo al tempo.

Andrea Zirilli

 


 

Al direttore - La proposta di Cerasa di tornare a un sistema dove i cittadini decidono direttamente un governo, al di là delle tante variabili tecniche, va accolta. Per capire perché sia fondata bisogna fare un passo indietro e capire quando e perché è stata abbandonata. In termini cronologici, il fatto decisivo è stato il risultato del referendum costituzionale. Da lì si è innescata una dinamica che ha trascinato la sentenza della Corte costituzionale che ha riproporzionalizzato il sistema (il legame causale è stato evidente nell’aggiornamento dell’udienza decisiva a dopo il referendum) e che ha poi avuto una conferma con la legge Rosato.Tuttavia c’è di più. Prima del referendum, col successo nei ballottaggi comunali dei candidati grillini, si era eroso il consenso dell’élite dirigente verso un sistema maggioritario a doppio turno, l’unico che potesse, a partire da tre minoranze, produrre un vincitore senza eccessive forzature. Scambiando un fatto congiunturale con un dato strutturale, buona parte della classe dirigente ha a quel punto ritenuto preferibile un sistema dove nessuno vincesse e dove fosse immaginabile un sistema di coalizioni contro le forze ritenute antisistema. Questa riflessione è stata anche dietro al ritiro di Forza Italia dalla maggioranza costituzionale e al suo slittamento nello schieramento del No al referendum, che è stato decisivo per l’esito del 4 dicembre 2016. Com’è andato il seguito è noto. Con la vittoria del No e la conseguente regressione proporzionalista non si è verificata una coalizione tra le due forze che avevano dominato la cosiddetta seconda Repubblica, ma, ben più coerentemente, le due forze critiche verso il sistema già alleate nel No sono riuscite a coalizzarsi. Una eterogenesi dei fini che dimostra come le sfide con forze regressive vadano combattute in campo aperto, non con espedienti. Per di più, gli esiti concreti smentiscono radicalmente l’argomento classico dei proporzionalisti e dei fautori dei governi di coalizione, ossia le doti di moderazione reciproca che quegli assetti porterebbero con sé. Il governo Conte, infatti, procede di norma blindando un provvedimento favorevole a uno dei due partiti di maggioranza per farlo seguire subito dopo da un’ulteriore blindatura a favore di un provvedimento di matrice opposta. E’ così, ad esempio, che quasi senza nessun emendamento significativo sia stato possibile convertire in legge il decreto sicurezza del ministro Salvini, sgradito ad ampia parte del M5s, e a breve distanza il provvedimento anticorruzione voluto dal M5s e osteggiato dalla Lega. Paradossalmente un governo monocolore avrebbe prodotto esiti meno estremi perché limitati a uno solo dei due ambiti.La legge Rosato resta aperta a un esito maggioritario qualora una coalizione raggiunga il 40 per cento e abbia una buona distribuzione territoriale per le vittorie nei collegi uninominali. Tuttavia essa è incoerente: prevede coalizioni pre elettorali ma è possibile che, in assenza di un vincitore, esse siano subito smontate e rimontate altrimenti. Anche stavolta non lasciamoci fuorviare da un dato congiunturale, dal fatto che in questo momento una coalizione a trazione leghista sembrerebbe poter vincere. Tanto vale scegliere stabilmente un modello coerente: o un sistema proporzionale vero, dove agli elettori scelgono solo un partito e non un governo, o un maggioritario vero che garantisce la scelta diretta. Il secondo, quello che vediamo per comuni e regioni, è qualitativamente migliore. Torniamo su quella strada: poi chi avrà più filo con gli elettori tesserà.

Stefano Ceccanti, deputato del Pd

Di fronte a un paese diviso, la classe dirigente politica ha due scelte possibili: decidere di governare le divisioni oppure decidere di farsi governare dalle divisioni. E’ arrivato il momento di scegliere la prima strada invece che continuare a giocare con la seconda. Ma per farlo non serve solo usare la teoria. Serve la pratica. Serve un accordo trasversale tra maggioranza e opposizione.

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