Da “lavorare meno, lavorare tutti” a “lavorare nero, lavorare tutti”

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Ok ma non era questo l’investimento sul digitale a scuola che si era detto.

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - Lo slogan “lavorare meno, lavorare tutti” appare e riappare come un fiume carsico nella propaganda elettorale dei Cinque stelle. Dopo un lungo silenzio, è tornato agli onori della cronaca grazie al presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Se andiamo al sodo, il postulato della sua proposta è l’ineluttabile tramonto del lavoro umano indotto dall’automazione integrale dei processi produttivi. Un concetto ribadito nel giugno scorso dallo stesso Beppe Grillo: “Le nostre città sono costruite per ospitare un popolo di formiche operaie, ma la metà (se non tutti) dei cosiddetti lavori manuali ripetitivi e quelli da scrivania, o comunque a bassa creatività, possono essere sostituiti già oggi con la tecnologia”. In questo quadro, orario di lavoro ridotto (a parità di salario) e reddito di cittadinanza fungono sia da ammortizzatori sociali universali, sia da “sussidio” all’innovazione. Niente di nuovo sotto il sole. La fine del lavoro è un vecchio refrain, tornato in auge nel passaggio di secolo. Di fronte alla disoccupazione di massa, sociologi ed economisti si sono ingegnati a descrivere la terra promessa dell’ozio creativo (finanziato dai contribuenti). Il lavoro non c’è più, sventura. Il lavoro non c’è più, evviva. La verità, pervicacemente contestata dai neoluddisti del Terzo millennio, è che ogni rivoluzione industriale comporta la nascita di lavori nuovi e, parallelamente, la scomparsa di vecchi mestieri. Ma veniamo al punto. Dopo il traguardo delle 40 e, in taluni casi, delle 36 ore superato nella seconda metà del Novecento, quello che sembrava un cammino inarrestabile (Keynes aveva preconizzato addirittura una giornata lavorativa di tre ore), si interrompe bruscamente. Si è assai dibattuto sulle ragioni di questo stop. Ha sicuramente pesato l’allungamento della speranza di vita, che si è venuto incrociando con il calo del tempo di lavoro. Non è infatti facile, anche per le economie più sviluppate, reggere le opposte dinamiche di una durata del lavoro che diminuisce e di una durata della vita che aumenta. Se poi guardiamo all’Italia, il fallimento del disegno di legge sulle 35 ore (1998) dovrebbe suggerire qualche riflessione. Infatti, come Fausto Bertinotti ieri, Tridico oggi sembra cadere nello stesso errore: quello di una visione ottocentesca del mercato del lavoro, come se fosse spaccato a metà tra occupati e disoccupati. Mentre da noi resta forte il dualismo tra lavoro regolare e lavoro nero, per tacere di quello precario e del fenomeno dei working poor, ossia di chi pur avendo un impiego è vicino alla soglia della povertà. In questo contesto, la tendenza dominante è quella dell’allungamento della giornata lavorativa sociale, costituita dalla somma dei regimi d’orario vigenti in tutte le articolazioni del sistema produttivo e dei servizi. Tendenza a cui spesso non sfugge nemmeno lo stesso settore centrale della manodopera, laddove esiste un divario tra orari contrattuali e orari di fatto. Questa realtà, fatta di molto lavoro mal retribuito e mal tutelato, non può essere esorcizzata con qualche alzata d’ingegno. “Per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice che però è sempre sbagliata” diceva George Bernard Shaw.

Michele Magno

  

Il governo del cambiamento, tra i suoi molti successi, è riuscito a cambiare anche il famoso motto. E grazie al reddito di cittadinanza, grazie alla quota cento, grazie alle agevolazioni offerte unicamente a chi lavora con partita Iva, da “lavorare meno, lavorare tutti” siamo passati allegramente a “lavorare nero, lavorare tutti”.


  

Al direttore - Caro Cerasa, non sarebbe il caso che a sinistra almeno qualcuno cominciasse a interrogarsi sulle ragioni del crollo elettorale dei partiti e delle liste “socialisti” sotto tutte o quasi le latitudini? Vedansi a conferma gli ultimi dati in Israele. Parlare di crisi della sinistra democratica e riformatrice appare persino generoso davanti a un crollo di consensi epocale. Prendo atto che almeno lei ci prova, a suggerire ai socialisti di casa nostra di fare i conti con la realtà di una proposta politica che non convince né può convincere. Mi pare, purtroppo, inascoltato.

Giovanni Trombetta

 


 

Al direttore - Si sottolinea da diverse parti il realismo del Def. Giustamente sul Foglio del 12 corrente Paolo Manasse mette in evidenza le 10 oneste ammissioni del ministro Tria, riguardanti, in particolar modo, le conseguenze del realismo dei dati, a partire da quello sulla crescita. Ma se questi sono i presupposti perché, poi, non se ne traggono puntualmente le inferenze in termini di specifiche scelte politiche e di impegni chiari, sia pure coerentemente con la natura del Documento che non è (ancora) una proposta di legge? Ci si può fermare a un’analisi abbastanza corretta, benché manchino diversi aspetti che andrebbero considerati da un Documento che voglia essere organico e di respiro, senza impegnarsi sulle conseguenze che ne discendono con misure altrettanto analiticamente indicate? Non siamo in presenza del classico “non sequitur” o, meglio, di una diagnosi non completa, seguita da una prognosi (pure essa parziale) ma priva di qualsiasi indicazione terapeutica? Il fatto è che il cuore dell’iniziativa politica sta proprio nelle azioni mancanti. Questo vuoto segnala la confusione, la contraddittorietà e la superficialità dominanti nel governo. Bisogna aspettare per forza la cogenza del vincolo esterno – spread, raccomandazioni della Commissione Ue, minacce di apertura di una procedura di infrazione – per poter colmare questo vuoto e in una condizione, però, di maggiore debolezza? E Tria non è destinato a svolgere la parte di chi sia soltanto una “vox clamans in deserto” e fino a quando? Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia


  

Al direttore - Il futuro e l’Italia vabbè, ma per rispetto della storia bisognerebbe ricordare che Giulio Cesare non si chiamava Caio, ma Gaio.

Carlo Stagnaro

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