Giustizia, politica e incapacità di usare la parola proporzionalità
Al direttore - Mica hanno buttato la chiave della giunta per le immunità?
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Ho letto sui giornali che una preside di Imperia è stata arrestata per un’accusa di peculato relativa all’uso per motivi personali dell’auto di servizio della scuola che amministra. Ricordo che nel 2015, la suprema Corte di cassazione, con sentenza 24082, ha scritto che “in tema di misure cautelari personali, il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale”. Non sarebbe il caso di ricordarlo?
Luca Martini
Per fortuna, ieri, il procuratore aggiunto di Imperia ha chiesto la sostituzione della pena del carcere con gli arresti domiciliari. Ma resta comunque un mistero il fatto che sia stato possibile pensare anche solo per un istante che per un reato del genere sia possibile andare in galera. Il pm ha provato a scaricare le responsabilità sul codice che a suo modo di vedere gli avrebbe imposto l’arresto in carcere ma si tratta di una cosa non vera: il pm avrebbe potuto tranquillamente disporre i domiciliari alla donna, dopo che i poliziotti l'avevano portata in carcere, in virtù di un articolo del codice di procedura penale (il 386 comma 5) che prevede: “Il pm può disporre che l’arrestato o il fermato sia custodito in uno dei dei luoghi indicati nel comma 1 dell’articolo 284” (cioè ai domiciliari), in attesa della convalida. Il problema è la proporzionalità. E a proposito di proporzionalità c’è un’altra storia interessante da segnalare. Ho letto che i magistrati che hanno “sgominato” un pezzo importante del Partito democratico umbro hanno scelto di aggiungere il suffisso “poli” all’indagine sui concorsi. L’inchiesta, così, si chiama Concorsopoli non perché è la fantasia dei giornalisti ad averla nominata così ma perché il pool che coordina le indagini ci teneva a far sapere che anche l’Umbria ha la sua Tangentopoli. Che l’indagine sia seria, non mi sembra che ci siano dubbi. Che trasformare un caso di raccomandazioni e di concorsi truccati nella nuova Tangentopoli, dando naturalmente per scontato che ogni accusa debba coincidere necessariamente con una condanna, sia qualcosa di serio se ne potrebbe discutere a lungo. Proporzionalità, please.
Al direttore - Nel fare i complimenti a Michele Masneri per il suo entusiastico reportage su Brescia, permettimi di vellicare il mio provincialismo portando all’attenzione dei lettori del Foglio quattro dettagli di contesto che, forse, possono interessare anche al di fuori della città lombarda. Primo: negli ultimi trent’anni, i bollenti animal spirits del capitalismo bresciano si sono sviluppati in un quadro politico prevalentemente catto-comunista che si è concretizzato nel patto tra Martinazzoli e i Ds, e poi nelle coalizioni uliviste dei sindaci Corsini e Del Bono, che ha sì raggiunto maggioranze renziane, come scrive Michele, ma senza mai aderire al velleitario solipsismo renziano. La cosa può dispiacere a chi pensa che il capitalismo pugnace derivi solo dall’etica protestante e/o dal contrasto radicale tra liberisti e socialisti, ma dovrebbe intrigare chi è curioso del reale. Secondo: le radici della celebrata manifattura bresciana si sono temprate nel fuoco di conflitti sindacali asperrimi, oggi superati non tanto da una Bad Godesberg (peraltro augurabile ma ormai insufficiente) quanto dalla rivoluzione tecnologica, che ha internazionalizzato le filiere del valore, e dal pragmatismo dei più: anche della Fiom, contraria a Marchionne nei comizi, e degli stessi presidenti dell’Associazione industriali, marchionnisti nei convegni, ma entrambi pronti a fare buoni accordi aziendali. Meglio con il Jobs act, ma anche senza, perché, se hai i prodotti giusti e sei capace di venderli, hai già fatto tanta strada. Terzo: le infrastrutture d’avanguardia (teleriscaldamento, termovalorizzatore, metropolitana) sono state impostate dalla mano pubblica, particolare interessante per chi, provenendo da città variamente male amministrate, pensa che la soluzione stia nella semplice privatizzazione dei servizi pubblici locali e non nella maturazione civilizzante delle persone. A Napoli la raccolta dei rifiuti era appaltata a imprese private… A Roma l’Atac è pubblica… La maturazione, magari, potrebbe essere aiutata da un temporary management delle società comunali affidato alle ex municipalizzate del nord come ha già fatto, senza troppo filosofeggiare, il Gemelli affidando all’ex direttore della Poliambulanza bresciana il risanamento dei propri conti. Quarto: Brescia è una città di provincia e tale rimarrà, specialmente nella cultura; non ha senso inseguire Milano; così come non avrebbe senso per Milano pensare di sostituire Roma. E tuttavia questa provincia è stata all’avanguardia globale nell’elaborazione teologica e filosofica (Morcelliana, Queriniana, Severino) e pure nel disastrato mondo dell’informazione ha detto la sua facendo vivere due quotidiani di informazione, il curiale Giornale di Brescia e il garibaldino Bresciaoggi, quest’ultimo fondato da tre industriali ma poi salvato da una cooperativa di giornalisti e tipografi che, dopo 16 anni di sacrifici, non 16 mesi, riuscì a piazzarlo all’Athesis di Verona spuntando un ottimo prezzo. Cervello e cuore di questa singolare esperienza è stato un giornalista-editore repubblicano, che non si era formato andando la sera in via Veneto né al mattino in Via Solferino, ma amministrando condomini e da qui partendo per inventare l’informazione economica locale, e per questo apprezzato tanto dal banchiere Bazoli quanto dal principe Caracciolo. Ma queste sono storie vecchie…
Massimo Mucchetti