Sri Lanka e intolleranza. Perché oggi il cristianesimo è quasi sempre vittima e quasi mai carnefice

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 24 aprile 2019

Al direttore - Governo Frankenstain.

Giuseppe De Filippi

Questo Albert Astàin deve essere un cugino di Pino Chet.


   

Al direttore - Ha ragione Carlo Bonomi che, nell’intervento sul Foglio, precisa il significato dell’affermazione dell’allora governatore della Banca d’Italia, Guido Carli sull’ormai famoso atto sedizioso che la Banca d’Italia avrebbe compiuto se si fosse rifiutata di finanziare il disavanzo del settore pubblico, astenendosi dall’acquistare i titoli di stato. Alle spiegazioni esposte si può aggiungere che Carli così si esprimeva in pieno choc petrolifero con tutte le conseguenze drammatiche, ivi comprese quelle in materia di regolamentazione delle banche e dei mercati, che la crisi comportò, nonché nella politica economica. Una crisi che non fu di molto inferiore a quella prima globale, poi europea e italiana che abbiamo vissuto, i cui strascichi ancora si avvertono. In più Carli pensava di aggredire alla base il tema del disavanzo con il costante chiamare in ballo con una dura critica le “arciconfraternite del potere”, i “lacci e lacciuoli”, l’inefficienza del settore pubblico mentre, a poco a poco, sosteneva il valore del “vincolo esterno”. In ogni caso, quell’espressione andrebbe storicizzata e non letta alla luce di quel che dopo si decise con il “divorzio consensuale” Tesoro-Banca d’Italia con quest’ultima diventata libera di acquistare o no i titoli pubblici a tal fine basandosi solo su scelte di mercato. Ma anche allora non si svoltò di 360 gradi. Si costituì informalmente la cosiddetta “cintura dei Bot”, un insieme delle maggiori banche, che assicuravano il collocamento mensile dei titoli anzidetti. Giusto ricordare il Carli, ministro del Tesoro, poi firmatario del Trattato di Maastricht. Ma sarebbe anche giusto ricordare che il suo successore a Via Nazionale, il grande governatore Paolo Baffi, in un articolo sulla Stampa scritto nel 1989, quando era governatore onorario, pochissimo tempo prima di venir meno, indicava tutte le incongruenze e le conseguenze negative dell’accordo che allora era in itinere per arrivare all’unificazione monetaria e della relativa politica, lasciando tutto però il resto immutato. Una previsione puntualmente avveratasi. Un disegno migliore avrebbe consentito oggi argomenti più forti contro le aberrazioni del sovranismo. Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia


   

Al direttore - L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha inviato un parere al governo nel quale invita a non tagliare la convenzione con Radio Radicale senza che neppure sia stata definita la riforma del settore. Radio Radicale costa 5 milioni di euro all’anno. Qualcuno può spiegarci per quale diavolo di ragione dovrebbe chiudere?

Marco Martoni

  

Alla fine di marzo, il centro studi di Unicredit ha calcolato che nei primi tre mesi del 2019 i 76 miliardi di titoli di stato a medio-lungo termine (Btp, Cct e Ctz) emessi dal Tesoro sono costati, in termini di interessi annualizzati, circa 700 milioni di euro in più rispetto ai titoli analoghi collocati nel primo trimestre dell’anno scorso. Se a questi numeri si sommano anche i Bot collocati da gennaio allo stato attuale le emissioni del solo primo trimestre sono costate allo stato, nel 2019, 900 milioni di interessi in più rispetto a quelle dello stesso periodo dell’anno scorso, più o meno il valore di 180 Radio Radicale. Without shame.


   

Al direttore - Questa è la conferma di quanto scriveva Oriana Fallaci: l’aggressione mondiale ai cristiani di un occidente svogliato, indifferente, inconsapevole di sé. Basta osservare come nello Sri Lanka gli islamici siano una minoranza, il 9 per cento. Se il movente della strage fosse una loro rivendicazione di supremazia nei confronti della locale maggioranza buddista e indù, l’aggressione sarebbe rivolta contro di loro. Invece è avvenuta a Pasqua, contro la minoranza (8 per cento) cristiana.

Gian Paolo Dulbecco

   

Le religioni più tolleranti sono quelle che puntualmente finiscono vittime degli intolleranti e prima o poi bisognerebbe chiedersi perché almeno in tempi recenti il cristianesimo è una delle poche religioni a essere quasi sempre vittima e quasi mai carnefice.


   

Al direttore - Come si può dire che il 25 aprile è morto? Chi lo afferma è lontano dal capire che domani non si celebra solo la liberazione dell’Italia dal flagello del nazifascismo, ma si celebrano anche gli ideali che hanno dato vita alla nostra Carta costituzionale. Allora la miglior sintesi di questa giornata è nelle parole dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: “Coraggio, fermezza e senso dell’unità, furono decisivi per vincere la battaglia della resistenza”. Chi parla della morte di questa ricorrenza, mistifica la realtà.

Andrea Zirilli


     

Al direttore - In un periodo in cui la crescita del nostro paese preoccupa (e non poco) cittadini, imprenditori e investitori internazionali, è estremamente importante ribadire che, per l’Italia, non può esistere strategia di crescita che non coinvolga direttamente il settore dei Beni culturali. Non è necessario un esperto, per dirlo. E’ una questione di “numeri”. Basta guardare, ad esempio, le differenti classifiche internazionali raccolte da Wikipedia. Iniziamo dalle classifiche demografiche: Wikipedia cita the World Factbook (Cia) che evidenzia come l’Italia sia la 23° nazione per popolazione, 206° per tasso di fertilità e soprattutto la quinta nazione al mondo per età media: 45,8 anni. Sul versante economico, i link ci riportano al Global Competitiveness Report (World economic forum) che, nell’edizione del 2018, indica la nostra economia come la trentunesima a livello mondiale, a pari merito con l’Estonia, individuando, tra i principali margini di miglioramento, l’ammodernamento del “settore pubblico” (107°). Questo, per non parlare del tasso di crescita dell’economia, che stando ai dati 2017 (ultima rilevazione disponibile) della Banca mondiale, l’Italia è al 199° posto. Ma in Italia, almeno, si vive bene, vero? Più o meno: secondo il Better Life Index realizzato dall’Oecd, “L’Italia consegue buoni risultati in poche valutazioni sul benessere”. A fare eco sono i risultati del rapporto Bes dell’Istat, che evidenziano come la soddisfazione relativa alle nostre relazioni sociali sia calata costantemente negli ultimi dieci anni. C’è, insomma, qualcosa che ci possa rendere davvero orgogliosi di essere italiani? In altri termini, abbiamo almeno una “competenza distintiva”? Domanda retorica. Tutti conoscono la risposta anche se pochi la comprendono davvero. Il nostro vantaggio competitivo nei confronti del mondo è il livello di influenza culturale. Secondo il 2019 Best Country Rankings, nella Sezione “Cultural Influence”, l’Italia è al primo posto. Come l’anno scorso. Nella testa di chiunque, questa dovrebbe essere una linea politica chiarissima da perseguire. Lo è un po’ meno nel nostro paese. Certo, il patrimonio culturale è sempre più al centro degli interessi dei cittadini e dell’agenda politica, ma manca ancora una strategia di crescita fondata sui nostri asset fondamentali. Non basta, in altri termini, essere orgogliosi delle classifiche Unesco, ma è necessario fare in modo che questa grande “ricchezza” culturale si traduca in una ricchezza per l’intera economia e per l’intera società. Sempre più studi dimostrano come il patrimonio culturale correli positivamente con la crescita economica. Altrettanto frequenti sono ormai le evidenze che pongono in relazione la fruizione culturale attiva e il benessere percepito. Eppure, nonostante tutte queste evidenze, l’Italia, che di certo dispone in abbondanza di Patrimonio culturale, non riesce a trasformare queste meravigliose premesse in altrettanto piacevoli conseguenze. In un mondo che non si misura solo attraverso il pil, insomma, l’Italia dovrebbe essere tra le nazioni più potenti del pianeta, eppure questo non accade. Non accade perché le nostre politiche di sviluppo economico, da decenni, puntano su altro: l’Italia è nella maglia nera tra i paesi industrializzati per livelli di produttività, per investimenti in ricerca, e per investimenti in istruzione. Come se il McDonald’s puntasse tutta la sua campagna di investimenti sulla freschezza della propria lattuga.

Stefano Monti

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