Immigrazione e giusta protezione. Il Sinodo sull'Amazzonia? Una trappola
Al direttore - Balotelli: dai fammi vedere se te la senti di uscire dall’euro.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Davvero la chiesa ha bisogno di un Sinodo sull’Amazzonia? A leggere il documento preparatorio della prossima assise sinodale la domanda è più che legittima. Mettiamo da parte intanto le questioni di natura socio-economica, politica e culturale (che tra l’altro e con tutto il rispetto per l’Amazzonia non paiono più gravi di altre situazioni, in ogni caso non tali da giustificare un Sinodo), e che in quanto tali esulano dalla missione della chiesa che è e che resta annunciare il Vangelo perché gli uomini, convertendosi, possano salvarsi (compresi i popoli dell’Amazzonia). Da un punto di vista strettamente ecclesiale, oltre che essere un documento, come ha giustamente rilevato il card. Müller, senza “un grande orizzonte teologico alle spalle” (e già qui potremmo ricordare la lezione dell’indimencato card. Caffarra: “Una chiesa con meno dottrina non è una chiesa più pastorale, è solo una chiesa più ignorante”), per di più infarcito di riferimenti a esperienze teologiche e pastorali già viste e sentite decenni fa – esperienze che soprattutto in America latina hanno provocato non pochi disastri, in primis la teologia della liberazione e in secundis una discutibile teologia dell’inculturazione – il rischio qui è che prendendo spunto da un problema di ordine pastorale (ma che a sua volta riflette una crisi ben più grave che pastorale non è essendo primariamente crisi di fede) – ossia la scarsità di clero per celebrare i sacramenti, a partire dall’eucaristia – si vogliano introdurre innovazioni e cambiamenti di cui non soltanto non se ne sente il bisogno, ma che avrebbero ricadute di ordine teologico ecclesiologico e pastorale potenzialmente devastanti, configurandosi come la classica toppa peggiore del buco. Con l’aggravante che si tratterebbe di ricadute che andrebbero ben oltre i confini dell’Amazzonia. Lo stesso documento afferma infatti che “le riflessioni del Sinodo speciale superano l’ambito strettamente ecclesiale amazzonico, protendendosi verso la chiesa universale e anche verso il futuro di tutto il pianeta”. Che insomma l’Amazzonia possa essere utilizzata come “grimaldello” da parte dei sedicenti riformatori per “ammodernare” la chiesa in senso progressista, è una possibilità non troppo remota. Non solo. Il fatto eclatante è che sono proprio quelle stesse realtà alle quali ammiccano i novatori di ieri e di oggi per riformare in senso aperturista la disciplina del celibato – leggasi: le comunità protestanti in Germania – sono proprio esse la miglior prova della miopia di una simile operazione nella misura in cui lo sanno pure i bambini che il protestantesimo in Germania (e non solo) è ai minimi termini, e questo nonostante del celibato manco l’ombra. Vorrà mica dire qualcosa? Eppure, ecco cosa si legge nel passaggio non a caso più problematico del documento: “… E’ urgente valutare e ripensare i ministeri che oggi sono necessari per rispondere agli obiettivi di ‘una chiesa con un volto amazzonico e una chiesa con un volto indigeno’… Un’altra priorità è quella di proporre nuovi ministeri e servizi per i diversi agenti pastorali, che rispondano ai compiti e alle responsabilità della comunità. In questa linea, occorre individuare quale tipo di ministero ufficiale possa essere conferito alla donna, tenendo conto del ruolo centrale che le donne rivestono oggi nella chiesa amazzonica. E’ altresì necessario sostenere il clero indigeno e nativo del territorio, valorizzandone l’identità culturale e i valori propri. Infine, bisogna progettare nuovi cammini affinché il popolo di Dio possa avere un accesso migliore e frequente all’eucaristia, centro della vita cristiana”. Ora, tacendo dello stravagante riferimento, per altro ripetuto svariate volte nel testo, a questa “chiesa dal volto amazzonico e dal volto indigeno” che lascia un po’ il tempo che trova (mi accontenterei di una chiesa dal volto di Cristo, non basta?), si tratta di un passaggio che rende evidente la vera posta in gioco di questo Sinodo. E che insieme a tutto il resto del documento, non a caso criticato da più parti (e qui va ribadito che è una mera traccia di lavoro senza alcun valore magisteriale), è una prova ulteriore della confusione che c’è oggi nella chiesa. Una chiesa che primariamente a causa di una lettura dell’Incarnazione che sembra dimenticare che il Figlio di Dio è sì vero uomo ma anche vero Dio, e che si traduce in un approccio forse troppo pragmatico alle questioni, rischia di ridursi sempre più a una realtà umana, troppo umana, accanto ad altre realtà umane. Anche no, grazie.
Luca Del Pozzo
Al direttore - Matteo Renzi sostiene, nella lettera a Repubblica del 5 luglio, che nel nostro paese ci sia stata una sopravvalutazione del fenomeno dell’immigrazione. Egli era in Italia e assolveva al compito di segretario del Pd quando, in quel “funesto 2017”, a suo dire, si parlò “di una emergenza che non esisteva”. Vediamo come stavano le cose. Nel 2014 ci furono 170 mila arrivi nei porti italiani, furono 153 mila nel 2015, 181 mila nel 2016 quando i trafficanti di esseri umani la facevano da padroni in Libia, nei primi mesi del 2017, malgrado il lavoro di Marco Minniti, il trend degli arrivi era in aumento. Alla fine di giugno del 2017, in poco meno di quarantotto ore si presentarono nei porti italiani 26 navi con 13.500 migranti. Era o no una emergenza? Lo era! Riconoscerla fornì al ministro dell’Interno la determinazione per accelerare una politica tesa a definire le forme di una regolamentazione dell’immigrazione. Fu disciplinata l’attività delle ong all’interno di un sistema di salvataggio e sicurezza nazionale ed europeo, furono stipulate intese con il legittimo governo libico per aiutare la stabilizzazione di quel paese. Gli accordi con il presidente Serraj consentivano di fornire un supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro la immigrazione clandestina. Non solo. Si giunse con Serraj a una intesa sulle procedure per individuare già in Libia chi aveva diritto tra i migranti alla protezione internazionale e coloro cui occorreva garantire un rimpatrio volontario e assistito. Sempre nel “funesto anno” fu firmato un protocollo tra il governo libico e l’Unhcr che consentiva di avviare la realizzazione di un centro dedicato alla protezione per le persone con specifiche fragilità. Seppure in una situazione delicatissima, scriveva il New York Times nell’agosto di quell’anno, l’Italia dimostrava che era possibile mettere in campo un processo di governo dei flussi migratori. Tutto ciò, Matteo Renzi, dovrebbe valorizzare e rivendicare. E farlo evitando le “retoriche dell’accoglienza”del tipo “siamo stati tutti migranti e siamo tutti meticci”. Mi fermo qui. Se Matteo Renzi infine pensa che il crollo dei sondaggi per il Pd nel 2017 e, magari, la sconfitta del 4 marzo del 2018 siano da ricondurre al mancato voto del Parlamento sullo ius soli credo prenda un granchio. In quanto agli allarmismi sul rischio per la democrazia che si correrebbe con una immigrazione fuori controllo beh, io sono contro la fraseologia estremista e considero manifestazioni infantili urlare al “fascismo alle porte” a ogni intemerata di Salvini. Vorrei tuttavia che si ricordasse quanto emerge dalla indagine di Pagnoncelli effettuata dopo la vicenda della Sea Watch: il sostegno degli italiani a Salvini è ancora aumentato (malgrado le notti insonni trascorse sulla nave dai parlamentari del Pd). Spero qualcuno voglia riflettere.
Umberto Ranieri
Il Pd, nel 2018, ha perso le elezioni non perché ha giocato sullo stesso campo di Salvini ma perché ha fatto parecchio per non rivendicare di aver trovato una linea per combattere tanto l’estremismo umanitario (la priorità non è governare l’immigrazione: è accogliere) quanto quello sfascista (la priorità non è governare l’immigrazione: è fermarla). Ora. Si può polemizzare quanto si vuole su una linea oppure su un’altra ma una cosa dovrebbe essere chiara: ad alimentare la paura dell’immigrazione è sia chi non vuole vedere il problema, ovvero chi non vuole capire che l’immigrazione deve essere governata, sia chi lo vede, come Salvini, ma non fa nulla per risolverlo. Salvini ha capito meglio di chiunque altro che gli italiani hanno paura. Compito di una buona opposizione, più che litigare, è trovare una soluzione che faccia sentire gli italiani protetti senza che questo significhi dover aggredire le libertà non negoziabili di una democrazia liberale.