Le opposizioni che vogliono perdere altri voti. I pasticci del ministro Costa
Al direttore - Quando parla di termocombustione (incenerimento) il ministro Costa sembra non conoscere i numeri che cita. Oppure li ignora volutamente. Ancora ieri è intervenuto per spiegare che per realizzare un termocombustore ci vogliono 7 anni e che a quell’epoca saremo in grado di riciclare il 65 per cento dei rifiuti come previsto dall’Unione europea semplicemente essi non serviranno più. Resteranno privi di alimentazione. E allora prendiamo in mano la calcolatrice, va bene anche quella sul telefonino, e facciamo i conti. 30 milioni di rifiuti urbani totali, assumendo che rimangano stabili nei prossimi 15/20 anni. Il 65 per cento di riciclaggio significa 19,5 milioni. 10 per cento (massimo) di discarica fanno altri 3 milioni. 19,5 più 3 fa 22,5. Mancano all’obiettivo 7,5 tonnellate per gestire rifiuti non riciclabili e scarti del riciclo. L’attuale capacità di incenerimento è di 5,6 milioni di tonnellate (incluso il coincenerimento presso cementifici) e quindi mancano all’appello 1,8 milioni di tonnellate. Il che vuol dire dai 5 ai 10 inceneritori a seconda della taglia. Senza contare quelli che andranno in chiusura per limiti di età. Per far tornare i conti poi Costa fa riferimento a date e obiettivi che nessuno ha mai deciso, ivi compreso un 70 per cento di riciclo nel 2030, quando, ripeto, l’obiettivo condiviso in Europa è del 65 per cento ma al 2035. Capisco che non sia facile orientarsi in questa girandola di numeri a volte peraltro non richiamati correttamente, ma forse un paio di cose in più al lettore vanno raccontate.
Per riciclare il 65 per cento dei rifiuti occorrerà portare la raccolta differenziata oltre l’80 per cento visto che non tutto quello che si raccoglie può essere riciclato. Obiettivo perseguibile, ma certo non facile soprattutto nelle gradi aree metropolitane del centro-sud. Roma, amministrata dal Movimento 5 stelle sta al 45 per cento e nei 3 anni dell’amministrazione Raggi è cresciuta solo del 3 per cento. La raccolta differenziata ha poi bisogno di impianti per dare senso a questo impegno chiesto ai cittadini. Impianti per il recupero della materia ed il recupero di energia di quanto non riciclabile. Ma quasi tutti gli impianti di incenerimento stanno al nord e molte regioni centro-meridionali ne sono prive a cominciare dalla Sicilia che mette in discarica più del 70 per cento dei suoi rifiuti e ha una percentuale di raccolta differenziata pari al 21,7 per cento. Eppure uno dei primi atti del ministero è stato proprio quello di bocciare un impianto che A2A, l’azienda lombarda, era pronta a realizzare in quella regione. Ecco quindi centinaia di camion che viaggiano su e giù per l’Italia alimentando gli inceneritori del nord Italia e dell’Europa, con emissioni ben superiori a quelle di un moderno inceneritore. Infine ci si dimentica che oltre ai rifiuti urbani ci sono i rifiuti speciali di provenienza industriale, che oggi migrano per 3 milioni di tonnellate verso l’estero per mancanza di impianti italiani, compreso il pulper di cartiera che deriva proprio dal riciclaggio della carta! Costo stimato per il sistema Italia circa 1 miliardo e migliaia di posti di lavoro in meno.
E, dulcis in fundo, il ministero non riesce a risolvere il pasticcio in cui si è cacciato sul tema “end of waste” con la legge sblocca cantieri, bloccando di fatto intere filiere di riciclaggio. Proprio l’obiettivo che il ministro dichiara prioritario. Uno stato di confusione mentale, insomma, che ci ricorda quello di un viaggiatore senza bussola e senza meta. Chi ha detto “non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare?”.
Chicco Testa
Al direttore - Lo spettacolo su “Moscopoli” andato in scena al Senato mi ha ricordato una tradizione teatrale in cui siamo maestri, quella del varietà. All’inizio del Novecento l’avanguardia futurista la esaltava perché eccentrica e antintellettuale, in quanto non dipendeva dal senso delle parole ma dalla libera e sfrenata immaginazione di autori e interpreti, e perché non imitava la realtà ma era capace di stupire, abbindolare e divertire il pubblico con urla e schiamazzi. In effetti, almeno uno dei suoi spettatori (che però non ha voluto pagare il biglietto d’ingresso) non ha nascosto la sua ilarità. Matteo Salvini, infatti, ha considerato il discorso del premier Conte quasi alla stregua di un peto e ha sbertucciato il Parlamento come un luogo in cui si respira aria fritta. Giudizi tecnicamente eversivi, che in un paese normale avrebbero aperto una crisi istituzionale. Ma, si sa, viviamo in un paese in cui anche ciò che è più sconcio e scurrile diventa come la forfora che si spazza via dall’abito prima di uscire di casa. Del resto, l’aggiramento delle regole e l’uso sistematico delle fake news fanno parte del codice genetico dei due partiti che occupano Palazzo Chigi. Né bisogna dimenticare che cosa è stata e che cosa è ancora oggi la Lega: col Senatùr si proponeva la secessione in nome della Padania; con Salvini si è “nazionalizzata”, ma rimanendo estranea allo stato repubblicano, visto come un terreno di conquista e non come una realtà di cui condividere princìpi costituzionali e valori liberali. Questa estraneità è il collante che unisce i Cinque stelle al Carroccio, e quella nei confronti dell’Ue ne è la logica proiezione. Il tragico paradosso in cui ci troviamo è appunto questo: due populismi tendenzialmente plebiscitari sono stati chiamati a guidare una già fragile democrazia rappresentativa. Un fenomeno non solo italiano, ma europeo e mondiale. Varrebbe la pena di riflettere a fondo su questo punto. In ogni caso, in nome della sovranità popolare diretta abbiamo assistito a comportamenti tipici dei vecchi partiti, impegnati a impossessarsi di tutte le quote di potere possibile con una voracità a volte patetica a volte grottesca. Perciò Salvini e Di Maio governano e continueranno a governare insieme. C’è invece chi cocciutamente valorizza le loro divergenze programmatiche, magari esibendo come prova litigi ultimativi che però si rivelano sempre un bluff, per giustificare la ricerca di un “appeasement” del Pd con gli inventori del “mandato zero”. Mi sembra un’idea illusoria e anche poco commendevole, perché sottovaluta gravemente quell’antico sovversivismo italiano, analizzato da Antonio Gramsci alla vigilia della marcia su Roma, che costituisce l’identità storico-politica di entrambi gli azionisti della coalizione gialloverde.
Michele Magno
Perfetto. E aggiungerei un dettaglio. Ma l’incapacità delle opposizioni italiane a essere percepite come alternative alle forze di governo ha o no qualcosa a che fare con l’incapacità delle opposizioni italiane a offrire agli elettori un’alternativa a questo governo che prescinda dall’alleanza con i due partiti di governo? Sala ieri ha lasciato intendere, in una intervista a Repubblica, di essere disposto a sponsorizzare per il futuro un’alleanza tra Pd e M5s, qualora il M5s dovesse cambiare. Ma un partito d’opposizione che per inquadrare la sua opposizione si aggrappa a un partito contro cui oggi fa opposizione è un partito che fa di tutto per conquistare nuovi elettori o è un partito che fa di tutto per perderne degli altri?