La competizione vera contro il populismo. Profilo dell'intellettuale pavido
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Il nome di Torquato Accetto è passato ai posteri per un trattatello intitolato “Della dissimulazione onesta”, piccola gemma del moralismo politico nell’età barocca. Pubblicato nel 1641, fu riscoperto da Benedetto Croce. Il filosofo, infaticabile e appassionato esploratore di vecchie carte dimenticate, lo ripropose in piena epoca fascista (1928) presentandolo come un “saggio di psicologia prudenziale”, scritto da chi “sa di doversi muovere sulla terra, ma non dimentica il cielo”. In effetti, con dotti e sottili ragionamenti, Accetto suggeriva un codice etico secondo il quale sarebbe stato non soltanto lecito, ma addirittura necessario, usando l’arte della pazienza, nascondere i propri pensieri e moti dell’animo per salvaguardare il corpo e la mente da violenze e oppressioni esterne (allora il regno di Napoli era sotto il dominio spagnolo). La dissimulazione onesta, insomma, per lui non era fraudolenta ipocrisia, ma virtù del saper vivere, “una moderata oblivione, che serve di riposo agli infelici; e, benché sia scarsa e pericolosa consolazione, pur non si può far di meno per respirare in questo mondo”. Forse a questo modello di comportamento si ispira la condotta, nell’Italia sovranista, di taluni intellettuali pavidi e amanti del quieto vivere, un tempo assai bellicosi contro le derive autoritarie della stagione renziana. Allora, invece, sembravano assai più vicini a un contemporaneo del letterato pugliese, Tommaso Campanella, quando ammoniva che la fatica più dura è “pigliare abito allegro nella presenza dei tiranni”, e che non “è lecito mostrarsi pallido mentre il ferro va facendo vermiglia la terra con sangue innocente”.
Michele Magno
Al direttore - La rappresentanza politica non è mai faccenda di soli numeri. Seicento rappresentanti eletti sono in grado di fare un lavoro anche migliore di novecento a quarantacinque parlamentari nominati da un ristrettissimo cerchio di dirigenti di partito. Detto che “tagliare i politici” (che stava nella propaganda referendaria renziana) per risparmiare soldi è populismo papale papale, quel che conta è come quei parlamentari saranno eletti e in che modo svolgeranno i loro compiti. Non importa se la Legge Rosato ha effetti più o meno (pochi) maggioritari. Il suo palese drammatico vizio sta nell’impossibilità per gli elettori di scegliere il loro rappresentante. Una misera triste crocetta ratificherà scelte fatte altrove. Una buona rappresentanza si ha quando i parlamentari, grazie all’assenza di vincolo di mandato, potranno, ogniqualvolta sia necessario, fare affidamento non soltanto sulla loro, per noi imperscrutabile, coscienza, ma sulla loro esplicita scienza spiegando agli elettori, se il sistema elettorale lo consente, il perché e richiedendone il sostegno. Già, perché anche il limite ai mandati è un ostacolo alla buona rappresentanza. Chi sa di potere essere rieletto, non ri-nominato poiché, allora, risponderà al suo mandante, si comporterà nella maniera più responsabile possibile, cercherà di capire le preferenze e anche gli umori e le emozioni degli elettori e, interloquendo con loro, persino di cambiarli. Il non rieleggibile potrà diventare una mina vagante nel suo ultimo mandato a disposizione di oscuri interessi e interessati. Quanto alto e quanto forte dobbiamo protestare adesso noi, uomini e donne del No (ma faccio sempre molta fatica e ho ritegno a parlare in nome di altri) che ci siamo opposti alle sconclusionate e inadeguate riforme di Renzi? Sicuramente, è nostro dovere criticare il (non ancora) fatto e quello che motivatamente riteniamo il malfatto. Continuerò a farlo in maniera “sistemica”. La rappresentanza politica è elettiva. Quindi, bisogna valutare le riforme che riguardano il Parlamento e il governo anche con esplicito riferimento alla legge elettorale. Nessuna delle proposte dei Cinque stelle dipende e discende dalla vittoria del No il 4 dicembre 2016. Era possibile anche un altro governo.
Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica, Università di Bologna
Caro professore, grazie della sua gentile lettera, che non condivido in molti passaggi, ma che mi dà la possibilità di introdurre un altro tema su cui forse varrebbe la pena ragionare. Resto convinto, come lo ero e lo eravamo nel 2016, che per combattere il populismo sia necessario, anche se non sufficiente, avere un sistema istituzionale efficiente, capace cioè di generare una competizione sana, vera, reale e genuina, capace dunque di costringere le persone a scegliere da che parte stare. Fino a quando ci sarà un pezzo d’Italia che penserà di combattere gli avversari politici ingessando sempre di più il sistema, e sfuggendo così a ogni tentazione maggioritaria, il populismo prospererà. Se il professor Pasquino volesse stare da questa parte, dalla parte della semplificazione, del maggioritario, della competizione, sa che qui sarebbe a casa. Grazie.
Al direttore - In una democrazia occidentale si riderebbe della pratica che per assegnare un seggio senatoriale in Sicilia si ripesca una candidata non eletta in Umbria e, ancora, che vi sono tantissimi casi di subentri, opzioni, sostituzioni tra regioni e città tra loro lontane. So bene che i discorsi sui sistemi elettorali annoiano: ma in essi si annidano i princìpi democratici fondamentali, le regole di base della rappresentanza, e le chiavi di volta per maggioranze e governi. L’attuale sistema italiano è così balordo che non ha eguali in occidente. Perché scinde del tutto la scelta del voto dall’elezione del candidato; perché gli eletti sono decisi con un calcolo da lotteria nazionale; perché consente candidature plurime addirittura tra candidati uninominali e di lista; perché al Senato, invece di seguire la regola regionale, applica un sistema nazionale; perché le candidature nei collegi e nelle liste è nelle mani dei partiti senza alcun intervento degli elettori interessati. Nelle democrazie parlamentari a oggi sono praticati molti sistemi a seconda che si voglia esaltare la rappresentatività o la governabilità pur mantenendo sempre il legame elettore-eletto. Alla rappresentatività appartengono i sistemi proporzionali di vario tipo (lista circoscrizionale ristretta o larga) con voto di preferenza su liste aperte oppure su liste bloccate. Alla governabilità si riferiscono i sistemi uninominali a un turno (inglese) e due turni (francese) o con più candidati messi in fila dall’elettore (“Second best” australiano) e, ancora, liste proporzionali con premio di maggioranza nazionale (Italia 1953). Vi sono anche sistemi misti di vario tipo che sono validi purché resti chiaro il rapporto tra elettori ed eletti come, ad esempio il Mattarellum (dal 1994) con ¾ uninominale e ¼ proporzionale a lista bloccata circoscrizionale senza conteggi da giro d’Italia. Nella Repubblica sono stati sperimentati sistemi vari a seconda del momento politico: proporzionale di lista circoscrizionale con preferenze con recupero dei resti nel collegio unico nazionale (1946 e 1948) e poi con il recupero su scala circoscrizionale fino al 1992, poi misto ¾ e ¼ dal 1994. L’attuale sistema è mostruoso perché è sconclusionato e nessuno comprende dove e perché è stato eletto o non eletto. Personalmente sono favorevole al sistema (liberale) “Second best” che esalta la libertà dell’elettore di scegliere il suo rappresentante pur in un sistema uninominale, sistema che fu proposto anche da Luigi Einaudi negli anni Cinquanta al posto della legge maggioritaria. Ma sarebbe troppa grazia.
Massimo Teodori
Al direttore - A pochi giorni dalla scomparsa di Cristiano Toraldo di Francia voglio tornare, attraverso il suo giornale, a parlare di questo grande architetto, del suo pensiero – spesso discontinuo e dirompente – e del suo contributo alla produzione culturale contemporanea. Ho potuto conoscere a fondo e negli anni la produzione intellettuale di Superstudio – e quindi di CTF – grazie a tre amici e protagonisti diversi della scena culturale: Stefano Boeri, Pino Brugellis e Manuel Orazi. Mi stupisce sempre quando le idee e i pensieri non invecchiano e restano attuali, alimentando un dibattito transgenerazionale portatore di idee nuove, di messe in discussione, di proposte innovative che aggiungono un tassello alla nostra contemporaneità. Ecco è il caso di Toraldo di Francia che, insieme ad Adolfo Natalini, fonda nel ’66 il Superstudio, ancora oggi una delle “imprese” più influenti sulla architettura contemporanea. Il Superstudio, con le sue suggestioni – spesso provocatorie e surreali – e con i suoi lavori divenuti negli anni riferimenti per generazioni di studenti e futuri architetti ha rotto una serie di schemi, distruggendo con intelligenza dei postulati indiscussi come la marcatura dei confini tra arte, architettura e design. Oggi il pensiero di Ctf rappresenta non solo un esempio di buona architettura ma una prima efficace messa in discussione dei confini che separano discipline (apparentemente) distinte e il suo contributo ha una portata storica che Firenze non può sottovalutare. Immagino da subito due azioni di senso che gli renderebbero merito: la valorizzazione – sia in termini strutturali sia come luogo culturale – della Stazione Firenze Statuto e l’organizzazione di un importante momento monografico a lui dedicato, all’interno del Festival di architettura (FireMi) che vogliamo organizzare tra Firenze e Milano con i protagonisti della scena architettonica, la Triennale e la Facoltà di architettura di Firenze. Per il primo impegno, invece, intendo da subito aprire un dialogo con la Soprintendenza e con Ferrovie per valorizzare quella stazione, frutto di un progetto anticipatore che con la sua grande sala vetrata sospesa intrecciata da travi di ferro, riflette la Firenze più bella.
Tommaso Sacchi, assessore alla Cultura di Firenze
Grazie del ricordo. A Toraldo oggi dedichiamo una pagina nell’inserto Terrazzo.