Le due strade dell'alleanza difficile tra Pd e M5s. Postilla su Conte
Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 24 agosto 2019
Al direttore - Vabbè che il Quirinale ha chiesto di stringere i tempi, ma governo intercettato già prima di nascere è troppo.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - E’ facile sparare adesso sulla Croce rossa rinfacciando a Giuseppe Conte di essere emerso dal nulla, di aver condiviso tutti gli atti di un governo scellerato (difesi con ardimento e un bel po’ di faccia tosta, persino nella prima parte delle sue comunicazioni al Senato). E’ pur vero che questo avvocato con la pochette, strada facendo, è cresciuto. Se all’inizio del suo mandato più che un “avvocato del popolo’’ somigliava al legale privato dei suoi due vice, pronto a eseguire i loro ordini, magari accontentandosi di sussurrare qualche consiglio all’orecchio (clamorose furono le sue retromarce su temi delicati dopo le sfuriate di Matteo Salvini e patetiche le sue telefonate da Bruxelles per ottenere il via libera), ora sembrava aver preso sul serio l’incarico che gli era stato affidato “un po’ per celia, un po’ per non morir’’. Era divenuto l’interlocutore dei “burocrati di Bruxelles’’. Era divenuto il riferimento del Quirinale nell’ambito del governo. Uomo di mediazione tra le opinioni altrui, aveva imparato a fare sintesi mettendoci del suo. Quando ci fu da negoziare con la Commissione i contenuti della manovra per l’anno in corso, nonostante i clamori volgari provenienti dagli ottimati della maggioranza, con un vero e proprio colpo di teatro, modificò, insieme al ministro Tria, l’ordine dei decimali (da 2,4 a 2,04) del deficit, con i conseguenti tagli alla spesa per quota 100 e il reddito di cittadinanza, in barba ai brindisi festosi dei pentastellati. Qualche mese dopo, con l’assestamento di bilancio il premier ha di nuovo disarmato la procedura di infrazione riducendo al silenzio i suoi due vice (in particolare Capitan Fracassa) e costringendoli a marinare la seduta del Consiglio dei ministri che sottoscrisse l’atto di resa. Poi, Conte ha saputo approfittare del terrore dei pentastellati per un eventuale voto anticipato tanto da convincerli che di essere in grado di evitare il “salto nel buio’’, indicando loro – lo ha notato anche Claudio Cerasa – uno spazio politico all’interno delle istituzioni europee. Il fatto che i pentastellati a Strasburgo siano stati determinanti per l’elezione di Ursula Von der Leyen non può non avere un significato politico anche in Italia. Ma finiamola qui: Conte ha vissuto 15 mesi da pecora? D’accordo; ma il 20 agosto è caduto da leone. Ha avuto il coraggio di denunciare che l’ex Capitano è non solo un irresponsabile (che si pavoneggia con una manovra da 50 miliardi), ma un pericolo grave per la democrazia. Nessuno fino ad ora lo aveva detto con tanta nettezza – da testimone diretto – dei fatti; neppure a sinistra. Ha ragione Giuliano Ferrara: la gauche ha scoperto l’antiantifascismo; nella sua lunga storia ha conferito a tanti avversari politici, che non lo meritavano, l’epiteto di fascista, senza accorgesi che, adesso, c’era il rischio di regalare l’Italia (cito ancora Ferrara) a “un piatto e scialbo mussolinismo torsonudista’’. Cacciare Salvini dal potere con ogni mezzo consentito dalla Legge fondamentale, costituisce il “primum vivere’’ della democrazia italiana. Quando il 25 luglio del 1943 il Gran Consiglio del fascismo approvò l’odg Dino Grandi, gli antifascisti di allora non si misero a disquisire tra loro se Grandi fosse un fondatore del regime e corresponsabile delle sue politiche. Ne presero atto e considerarono quel voto un’opportunità. Quando il Re, prosseneta del regime, nominò Pietro Badoglio capo del governo nessuno pose un problema di discontinuità nei confronti di un generale protagonista delle avventure coloniali del Duce. Quando nell’aprile del 1944 Palmiro Togliatti (ancora Ercole Ercoli) sbarcò a Salerno, non ebbe dubbi. Il fascismo andava combattuto, a ogni costo, insieme ai monarchici e ai “badogliani’’. Poi sarebbe venuto il tempo del “philosophari’’.
Giuliano Cazzola
Conte è il meno peggiore dei peggiori e ha avuto il merito di accorgersi di essere presidente del Consiglio dopo appena 500 giorni a Palazzo Chigi, nella sua ultima mezz’ora da premier passata a Palazzo Madama. In un monocolore grillozzo, Conte sarebbe stato il premier perfetto. In un governo che cerca discontinuità con il passato, il massimo a cui può aspirare il professor Conte è quello di essere una riserva nella splendida repubblica antisovranista all’interno della quale anche i populisti (Conte compreso) hanno capito che per provare a essere presentabili occorre diventare il più possibile antipopulisti. Che spasso.
Al direttore - Icastico e tagliente il breve commento di un ex dirigente di quella che fu la componente migliorista e riformista del Pci: mi riferisco al pezzo di Umberto Minopoli, “Cinque condizioni? Macché. E’ una resa della sinistra populista ai Cinque stelle”. Ottimo. Condivido. Aggiungo soltanto un punto di contenuto alla lista che Minopoli fa dei cedimenti che, in materia di politica economico-finanziaria, il Pd si appresta a fare verso il populismo dei 5 Stelle. Il punto è quello della riforma della giustizia che, addirittura, neppure viene indicato nei famosi cinque punti inderogabili del Pd per un accordo con i grillini: dunque, per conseguenza sillogistica, temo che non sia considerata una condizione inderogabile da parte del Pd. E’, ahimé un addio a quel tentativo di politica garantista che aveva pur caratterizzato il riformismo di una parte della sinistra in direzione dell’eliminazione dell’abuso delle intercettazioni, della limitazione dei tempi di prescrizione, della riforma del regime della carcerazione preventiva. Insomma, dicesi stato di diritto.
Alberto Bianchi
Vale quello che scrivevamo ieri sul Foglio. Un’alleanza difficile ma non impossibile tra il Pd e il M5s offre due strade: fare un governo che segni la resa dei grillini o fare un governo che segni la fine del riformismo.
Al direttore - Sbarrare la strada a Salvini è cosa giusta e buona, certo. Tuttavia, mi pare di capire che nel Pd c’è una corrente di pensiero, che è anche una fazione politica, la quale auspica un’intesa con i Cinque stelle “a prescindere”, come direbbe Totò (non dico disposta a offrire perfino i glutei, perché sono una persona educata). Ovviamente, quando si apre un confronto non c’è punto o condizione che non sia negoziabile, compresa quella riduzione del numero dei parlamentari su cui sarebbe pretestuoso porre un veto pregiudiziale. Ma un governo di svolta e di alto profilo, come richiesto a gran voce da tutti i democratici, dovrà pure prevedere qualche significativa novità che segni una rottura con la disastrosa esperienza della coalizione gialloverde. Una celebre battuta di Groucho Marx recita: “Signori, questi sono i miei princìpi; e, se non vi piacciono, ne ho degli altri”. Ecco, se fosse questo lo spirito con cui si affronta la trattativa con Di Maio, meglio la sfida delle urne oggi – comunque tutta da giocare – che una sicura legnata elettorale domani.
Michele Magno