Nazismo e comunismo uguali? Occhio alle confusioni pericolose
Al direttore - I sedicenni: Enrico stai sereno.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Alle anime belle che protestano per la risoluzione dell’Europarlamento che equipara nazismo e comunismo ha già obiettato Alfonso Berardinelli ricordando che un gruppo non insignificante di intellettuali argomentarono sulla stretta parentela tra i regimi nati dalle volontà politiche e ideologiche di Hitler e Stalin. Per riflettere ancora sul tabù dell’antitotalitarismo vorrei ricordare l’episodio di cui fu protagonista Gaetano Salvemini nella stagione in cui dominava la retorica dell’unità antifascista che precedette il Front populaire francese e la Guerra civile spagnola, che rivelò apertamente quanto i socialisti libertari fossero perseguitati dai comunisti (Orwell, “Omaggio alla Catalogna”). Nel giugno 1935, su iniziativa del Comintern, si tenne a Parigi il “Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura” con l’obiettivo di dar vita a un fronte antifascista in grado di coinvolgere noti intellettuali europei tra cui Bertolt Brecht, Louis Aragon, Julien Benda, Robert Musil e molti altri. Salvemini, che aveva ispirato il primo gruppo antifascista italiano “Non mollare”, con la consueta franchezza parlò apertamente del totalitarismo sovietico: “Non mi sentirei il diritto di protestare contro la Gestapo e contro l’Ovra fascista se mi sforzassi di dimenticar che esiste una polizia sovietica. In Germania ci sono i campi di concentramento, in Italia ci sono le isole penitenziario e nella Russia sovietica c’è la Siberia… Permettetemi di far mie le parole di Tolstoj ‘non posso tacere’…”. Alcuni mesi prima su Giustizia e libertà pubblicato in Francia in occasione del dibattito sull’unità delle forze antifasciste, si poteva leggere: “Il dissenso comincia quando il giornale comunista Azione popolare afferma che questa libertà concreta e di massa coincide con la libertà come è stata realizzata in Russia con la Rivoluzione di ottobre… Chi oserebbe sostenere oggi che il popolo russo è un popolo libero?”. La doppia faccia del totalitarismo è stata troppo spesso messa sotto naftalina in Italia accreditando quell’autentica fake news storica e politica per cui non si poteva essere autenticamente antifascisti se si era anche anticomunisti o, piuttosto, anticomunisti democratici. Alla vigilia del 18 aprile ’48, in un clima da scontro ideologico in cui si sosteneva che l’alternativa al “Fronte” di Garibaldi fosse solo il clerico-fascismo di Luigi Gedda, un gruppo di intellettuali democratici e liberali propose un manifesto antitotalitario “Europa, cultura e libertà” che riprendeva il “Manifesto degli intellettuali antifascisti” del 1925. Lo firmavano i liberali Benedetto Croce e Luigi Einaudi, il cattolico Gaetano De Sanctis, i democratici e socialisti Ferruccio Parri e Ignazio Silone. D’accordo che la storia non la devono scrivere i politici e tantomeno i parlamenti, ma nella nostra epoca di oblio si deve pur mettere un limite alle falsificazioni come quelle di un “gruppo di studiosi” che ha pubblicato sul Globalist una dichiarazione in cui si afferma letteralmente: “Accettare che comunismo e nazismo siano la stessa cosa, due facce della stessa medaglia vorrebbe anche dire cancellare almeno tre personaggi chiave del Manifesto di Ventotene, Spinelli, Rossi e Colorni, considerandoli portatori di idee ‘totalitarie’”. Un saluto.
Massimo Teodori
A questa tesi ha risposto ieri il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, il quale ha detto che “affiancare nazismo e comunismo è una operazione intellettualmente confusa e politicamente scorretta: se riferita alla Seconda guerra mondiale rischia di mettere sullo stesso piano vittime e carnefici”. Difficile dargli torto.
Al direttore - Il 26 settembre è stato pubblicato un articolo a firma del giornalista Valerio Valentini, dal titolo “Picchi e Pepe, le prime crepe nella Lega”. Per quanto mi riguarda, a tutto tondo, si tratta di pura invenzione. La mia lealtà verso Matteo Salvini e il mio convinto sostegno al progetto politico della Lega sono valori alti, tanto alti, che non permetto si mettano in discussione in nessun modo, men che meno con colpi di gossip di fine estate. La mia posizione è tanto semplice quanto solida, e non ha mai lasciato spazio a rimpianti e/o titubanze. Eccola. Per alcuni è giusto “governare per governare”, sopravvivere, galleggiare, prendere in giro gli italiani, solo per il gusto di stare lì, sulle poltrone che pesano, pur di non perdere il posto di comando. Per noi della Lega, invece, ciò che conta è governare solo per fare cose utili per il paese; diversamente, meglio dare la parola ai cittadini. Per questo, sono stato convinto, sin dall’inizio, e lo sono sempre di più, del fatto che Matteo Salvini, ad agosto, abbia preso la decisione più giusta che potesse prendere, nell’esclusivo interesse dell’Italia e degli Italiani: con i “no” del M5s non si poteva più andare avanti, e non c’era altra strada che “staccare la spina” al governo gialloverde, ormai diventato un governo che, per colpa di quei “no”, aveva esaurito la spinta e il coraggio per rispondere alla domanda di cambiamento per cui era nato. Noi tutti, in Lega, siamo compatti al fianco del nostro Capitano, pronti ad arrivare fino in fondo, perché siamo forti di un’idea: lui è dalla parte giusta. Veda, direttore, a noi non interessa la gestione del potere, a noi interessa l’Italia dei prossimi cinquant’anni. E la costruiremo. Quindi nessun dubbio, ma solo granitiche certezze. Le crepe? Non ci appartengono, le lasciamo al Pd e al M5s, sono cosa loro!
Pasquale Pepesenatore, Lega Salvini Premier
Grazie senatore. Mi chiedo solo se il suo riferimento alla volontà ferrea del senatore Salvini di staccare a tutti i costi la spina al governo gialloverde comprenda o no l’offerta fatta in ginocchio dalla Lega a Luigi Di Maio: ripensaci, caro Luigi, torna sui tuoi passi e guidalo tu il governo con noi. Dico male? Un caro saluto.
Al direttore - Leggo l’articolo di qualche giorno fa sul Foglio, relativo a via dei Lucani, quartiere San Lorenzo, e porto qualche riflessione a un dibattito importante. Tutti oggi parlano di rigenerazione urbana. La norma che abbiamo recita che le finalità sono: “Promuovere, incentivare e realizzare, al fine di migliorare la qualità della vita dei cittadini, la rigenerazione urbana intesa in senso ampio e integrato comprendente, quindi, aspetti sociali, economici, urbanistici ed edilizi, anche per promuovere o rilanciare territori soggetti a situazioni di disagio o degrado sociali ed economici, favorendo forme di co-housing per la condivisione di spazi ed attività”. L’area di via dei Lucani rientra negli ambiti di valorizzazione del Prg di Roma Capitale. Negli anni questi preziosi strumenti che per essere attuati avevano bisogno di progetti unitari che tenessero insieme funzioni diverse collegate da spazi pubblici sono stati progressivamente “aggrediti” da progetti in variante. Il Piano Casa in particolare ha permesso di realizzare in quell’area interventi che non rispettavano le funzioni previste, di fatto ne ha completamente stravolto le finalità. Dall’articolo sembra che non si possa sfuggire a uno schema noto alla città: se vuoi fare dei servizi devi mettere mano al portafogli (alcuni lo chiamano il Bancomat). E questo portafogli non è altro che lo scambio più classico: residenze in cambio di spazi pubblici e servizi. Con un dato però che molto spesso poi si fanno le residenze e non gli spazi pubblici. Roma è piena di questi esempi. Chiediamo un balzo in avanti all’imprenditoria, di guardare veramente all’Europa, a un modo diverso di sviluppare la città. Viviamo da dieci anni una crisi che ci deve far riflettere sul futuro e su nuovi modelli di crescita, non possiamo affrontare il presente con gli strumenti che lo hanno portato al collasso. Per una volta abbiamo voluto vedere il tema “al contrario”: non quante case ci servono per fare un giardinetto, ma – ci siamo chiesti, senza pregiudizi – cosa serve a quel pezzo di città? Chi ci vive e chi ci vivrà (visti anche i progetti in corso) che bisogni ha? Nell’articolo si evidenzia che in tutte le città del mondo si sviluppano progetti attraverso l’inserimento di edifici residenziali, una “gentrificazione giusta”, l’investimento più remunerativo e sicuro. Mi permetto di dire che non è vero. E’ un punto di vista banale, vecchio. Inoltre le segnalo che è falso dire che si torni alla “zonizzazione”, che esista un “supercontrollo”. Chiediamo progetti e modelli di gestione, non tabelle e colori astratti. Lo chiediamo perché le persone chiedono spazi in cui abitare nella città, in cui sviluppare relazioni con gli altri. Nelle capitali europee sono spazi privati di uso pubblico, servizi alla persona, alle imprese. Non posso fare esempi perché c’è una procedura in corso. Si può immaginare un mix di funzioni che tenga insieme attività produttive, che sviluppino lavoro magari, attività di servizio, per immaginare di mandare i nostri figli a piedi da soli a fare delle attività sportive insegnandogli anche a essere autonomi nella città. Non vogliamo immaginare una città che abita solo nello spazio privato, vogliamo che le persone vivano relazioni intense e ricche, che abitino con piacere i luoghi.
Così sono le città europee che sono evocate nell’articolo. Questo chiediamo a chi vuole bene a questa città.
Luca Montuori, assessore all’Urbanistica del Comune di Roma