I populismi nemici del benessere. Genova ha un altro problema
Le lettere al direttore del 4 ottobre 2019
Al direttore - Scrive Giuliano Ferrara che “… la società liberale libertaria e nichilista del progressismo ha già combinato tutto, in modo irreversibile”. Dice bene Federico Rampini: “E’ iniziata una seconda guerra fredda. Per ora si combatte con armi commerciali, apparentemente incruente, ma altrettanto feroci e spietate perché la globalizzazione ha esteso le conseguenze a tutto il pianeta”. La prima l’hanno vinta l’economia e la sua politica associata. L’implosione, senza sparare un colpo, dell’Impero sovietico, lo dimostra. Oggi la partita è più complicata e complessa perché le potenze economiche in campo sono cresciute di numero e, all’economia ideologica, insostenibile, marxista s’è sostituita quella pragmatica, spregiudicata, cinicamente concreta cinese. Oggi l’economia occidentale, semplifico, s’è impregnata di corpose quantità di “liberalismo libertario e nichilista”, di un mediatico, diffuso, irenismo morale che oggettivamente, la rendono più debole e meno competitiva. Il resto, parole.
Moreno Lupi
Mi sembra tutto molto più semplice: i principali elementi di instabilità del mondo libero, della società del benessere, sono legati a rischi creati da politiche populiste. Un rischio è stato tolto di mezzo, che era la bomba sovranista piazzata nel cuore dell’Europa. Gli altri due sono ancora lì: i dazi voluti da Trump, l’hard Brexit sognata dai populismi inglesi. Giocare con la chiusura è un pericolo per il benessere mondiale. E’ davvero così difficile capirlo?
Al direttore - Non una parola davvero meditata da parte di alcuno sul fatto che, ponte o no, Genova è una città morta, nel senso letterale di destinata all’estinzione assai presto. Genova è il più clamoroso caso di grande città (ha ancora, non per molto, più di mezzo milione di abitanti) che si sta lasciando andare a una lenta eutanasia, un suicidio assistito nel tempo che si preannuncia benissimo riuscito. La vitalità demografica di Genova è abbondantemente sotto lo zero da un sacco di anni, da decenni, e nessuno che faccia una proposta, quantomeno azzardi una cura, metta giù e discuta un programma se non per salvare la situazione, impresa impossibile, almeno per vedere di cominciare a curare le più gravi carenze. Genova aveva 817 mila abitanti nel 1971, la sua punta massima, ne ha oggi 578 mila, 239 mila abitanti e il 30 per cento in meno. Tra le grandi città con oltre 100 mila abitanti è quella che ha subìto il più grave tracollo. Il perché è presto detto: mancano drammaticamente a Genova, per l’inabissamento delle nascite che qui agisce da più di mezzo secolo, le donne di 14-49 anni in età fertile. Che sono 108 mila su oltre 300 mila donne, ovvero il 35,6 per cento, una percentuale di cinque punti inferiore a quella pur minima italiana, di nove punti inferiore a quella dell’Ue e di quattordici punti inferiore a quella che dovrebbe essere per avere concrete speranze di ripresa. Questa è Genova, una città dove sono molti di più gli abitanti di 80-89 anni, ovvero del nono decennio di vita, di quelli di 0-9 anni, ovvero del primo decennio di vita. Un sorpasso che riesce in pratica, nel mondo, alle sole province e città della Liguria, Genova in testa. E di fronte a questo autentico cimitero, e mentre il ponte di Renzo Piano già comincia a intravedersi, non una parola davvero meditata su quel che è e sarà Genova demograficamente parlando se non si fa nulla neppure per rallentarne la deriva? Assicurano che il ponte resterà in piedi secoli. Calma, non importa esagerare. Genova non ha tutto questo tempo davanti a sé. Per allora il ponte sarà attraversato dai pochissimi italiani rimasti, e dai fantasmi dei genovesi che furono.
Roberto Volpi