Non dare pieni poteri a Salvini per darli ai pm: grande affare così così
Le lettere al direttore del 16 gennaio 2020
Al direttore - Via il governo e pieni poteri, poi dice che uno in Russia si sente a casa.
Giuseppe De Filippi
A proposito di pieni poteri: un governo che nasce per togliere pieni poteri a Salvini dovrebbe forse capire che non rinunciare all’abolizione della prescrizione significa consegnare i pieni poteri ai magistrati. Dare i pieni poteri a un leader desideroso di mettere la sovranità di un paese nelle mani di una forza anti europeista era pericoloso. Ma dare ai magistrati altri pieni poteri per tenere ancora più sotto scacco la vita dei cittadini trasformando i processi già lenti in processi infiniti è l’opposto di quello che dovrebbe fare un governo interessato a combattere i nemici della democrazia illiberale. Semplice no?
Al direttore - A distanza di 20 anni dalla sua morte, deve essere possibile finalmente ragionare della stagione di Bettino Craxi, con calma, e raziocinio. Ad esempio mi aspetto che dal centrosinistra parta una discussione che riconosca i meriti storici del leader socialista e comprenda fino in fondo le conseguenze della stagione di Tangentopoli. Bettino Craxi fu, a mio avviso, dagli esordi della sua avventura politica fino a Palazzo Chigi, un socialista liberale. Il suo filo conduttore fu spingere sulla produzione della ricchezza, con la dotazione di strumenti per perseguire il fine di una maggiore giustizia sociale tramite adeguate politiche redistributive. Craxi fu anche un precursore dei tempi, quando pose l’accento sulla “democrazia governante”, ovvero una grande riforma presidenzialista, che desse più peso alla volontà degli elettori. Ma è soprattutto sulla battaglia culturale e sull’identità, che a Craxi va riconosciuta una vittoria storica nell’alveo della sinistra, e il riferimento è al noto “saggio su Proudhon. “Leninismo e pluralismo sono termini antitetici: se prevale il primo muore il secondo”, scriveva Craxi nel noto articolo del 1978 pubblicato dal settimanale l’Espresso, “dobbiamo muoverci in direzione opposta a quella indicata dal leninismo: dobbiamo diffondere il più possibile il potere economico, politico e culturale. Il socialismo non coincide con lo statalismo. Il socialismo… è la via per accrescere e non per ridurre i livelli di libertà e di benessere e di uguaglianza”. Che Craxi avesse ragione da vendere, nella polemica intellettuale con Enrico Berlinguer, sono stati i fatti successivi al 1978 a stabilirlo oltre ogni ragionevole dubbio. Per questo la sinistra del secolo nuovo dovrebbe avere il coraggio di riprendersi in toto il pensiero libertario e socialista da cui partì il leader del Psi. Bettino Craxi fu anche l’imputato simbolo di una stagione che agli inizi degli anni 90 stava per sorgere. Le monetine al Raphaël, come grimaldello per imporre una strumentale sollevazione popolare, e il cappio esposto alla Camera dei deputati da un leghista, come simbolo di un giustizialismo assetato di sangue e di processi sommari, furono per l’appunto le prime manifestazioni di un’epoca in cui il risentimento sociale e l’odio, presero il sopravvento. Craxi ha avuto ragione sul profilo culturale (il Psi ci mise 15 anni ad arrivare sulle sue posizioni), sulle riforme, sulla scala mobile, sugli euromissili, resta solo il buco nero dell’esplosione del debito pubblico negli anni di sua permanenza a Palazzo Chigi. A distanza di 20 anni dalla scomparsa per l’appunto, bisogna riconoscere, che con lucidità, coraggio, E ANCHE con IMMANCABILI ERRORI, Bettino Craxi aveva ragione. La ragione storica che gli dobbiamo riconoscere e tributare deve essere distinta e separata dalla responsabilità che Craxi ha avuto nella concezione dei partiti come strumenti avulsi dalla legge, quasi extraterritoriali nella gestione delle risorse, responsabilità che il leader del Psi ha peraltro condiviso insieme a tanti altri.
Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato
Al direttore - Umberto Ranieri ha scritto cose oneste su Craxi, non solo adesso, anche quando era più difficile. Ma vedo che non riesce ad abbattere il muro della sua verità storica e politica, sul quale la logica fa un salto. Ranieri, sul Foglio, sostiene che l’errore di Craxi fu di non capire che bisognava abbandonare una politica vecchia di alleanza con la Dc, nel 1989. Cioè, mentre crollava il muro, mentre i comunisti italiani ancora si interrogavano se chiamarsi comunisti, un partito come il Psi, che aveva avuto politicamente ragione, che per una anomalia tutta italiana( cosa diversa in Francia) era più piccolo del Pci, che aveva un leader che i comunisti profondamente disprezzavano, doveva rompere con la Dc moderata e con i partiti laici, e allearsi con i comunisti( che in realtà guardavano altrove). E’ anche la tesi di Giorgio Gori, dentro il pur bello articolo sul Foglio di ieri, secondo il quale Craxi non capì la portata della crisi del comunismo. Sono le tesi comode , dei miglioristi del Pci, che non seppero opporsi con efficacia, dentro il loro partito, alla deriva giustizialista e dei socialisti che “vacillarono”, perché non capirono la portata della “via giudiziaria al potere” e della “nuova politica”, come Gori. No, Craxi fece l’errore opposto. Quello di aver creduto alla profezia di Turati al congresso del 21, quando i comunisti andarono via dal Psi e lui disse loro che un giorno sarebbero tornati a casa. Craxi ha commesso l’errore di ritenere possibile che i comunisti potessero ridiventare socialisti. Li fa entrare nell’Internazionale socialista, lancia l’idea dell’Unità socialista, non va al voto nel 1991, per non fargli troppo male, rispondendo così positivamente alla implorazione di Veltroni e D’Alema nel camper di Rimini.
Sergio Pizzolante
Al direttore - L’editoriale odierno del Foglio dedicato all’azione diplomatica in ambito commerciale verso la Cina poggia su un dato statistico erroneo. Parte infatti dall’assunto di un tracollo (-15,4 per cento) del nostro export nell’ultimo anno verso la Cina sulla base dei più recenti dati Istat. In realtà, se si opera il confronto sui primi undici mesi del 2019 (da gennaio a novembre) rispetto allo stesso periodo del 2018 la riduzione dell’export italiano verso la Cina viene nettamente ridimensionata a un -2,9 per cento che è in linea con l’andamento anche dei dati fra 2018 e 2017 che fecero registrare un -2,7 per cento. Nessun tracollo quindi, ma una progressiva erosione del nostro export verso la Cina per contrastare la quale negli ultimi anni si sono moltiplicate sul mercato cinese iniziative di presenza italiana a fiere e manifestazioni, firma di intese e di accordi (molti in occasione della ricordata e proficua visita in Italia del Presidente cinese Xi Jinping), collaborazioni attivate dall’Ice con piattaforme di commercio elettronico operanti in Cina (a cominciare da Alibaba), per sostenere le nostre imprese e le nostre produzioni tipiche su un mercato complesso e difficile come quello cinese. Quanto poi al protocollo per favorire l’export di arance siciliane, citato nell’editoriale, esso rappresenta solo l’avvio di un’azione molto più ampia per promuovere l’agroalimentare italiano in un mercato dalle immense potenzialità, ma denso di barriere d’accesso. Stiamo già negoziando l’autorizzazione all’export per numerosi altri prodotti agricoli italiani proprio per fare del mercato cinese uno sbocco importante per tante nostre eccellenze del settore. Lo sforzo sopra descritto per una maggiore penetrazione commerciale sui mercati asiatici non è peraltro limitato alla Cina e sta ottenendo risultati molto positivi in vari paesi dell’area a cominciare dal Giappone dove nei primi undici mesi del 2019 le nostre esportazioni sono cresciute del 19,5 per cento, o dell’India dove sono cresciute dell’1,8 per cento o dei dinamici paesi Asean dove il nostro export è cresciuto del 5,8 per cento. Nel complesso l’export italiano verso i paesi extraeuropei è cresciuto nei primi 11 mesi del 2019 del 3,6 per cento, a conferma che le nostre esportazioni si consolidano come uno dei fattori trainanti e più dinamici dell’economia italiana, avendo già raggiunto in valore assoluto più di un terzo del nostro pil complessivo (nel 2018 per la precisione il 31,4 per cento del pil).
Cordiali saluti.
Giovanni Pugliese, Capo servizio stampa e comunicazione istituzionale ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale
Il dato statistico sul calo dell’export verso la Cina è dell’Istat, quindi se è erroneo dovrebbe essere l’Istat il destinatario di una rettifica da parte del ministero. E i dati, su una base temporale diversa, del ministero degli Esteri mostrano comunque un ulteriore leggero deterioramento dell’export verso la Cina, che non pare aver particolarmente beneficiato della sua nuova politica filocinese. A proposito della firma del protocollo per la spedizione delle arance con l’aereo, tanto pubblicizzato dal ministro Di Maio, il fatto che la Farnesina non fornisca alcun dato alternativo lo prendiamo come una conferma del fatto che finora a Pechino non è atterrato alcun velivolo carico di agrumi.
Al direttore - E’ dalla notte dei tempi che gli uomini, anche quelli di chiesa, usano il divide et impera quando si trovano davanti, o presumono che esista, un fronte a sé avverso. Non sappiamo se coloro i quali, da una parte e dall’altra, stanno soffiando sul fuoco per mettere l’uno contro l’altro Benedetto XVI e il card. Sarah riusciranno nell’ardua impresa. Sappiamo però che quand’anche riuscissero, sarebbe una vittoria di Pirro. Soffermarsi, come si sta facendo in queste ore, sulla questione della forma editoriale del libro incriminato (ancorché nelle vicende di chiesa la forma non sia un orpello), vuol dire solo continuare a guardare il dito per non vedere la luna. La luna essendo il monito, senza se e senza ma, messo nero su bianco da Benedetto XVI a difesa del celibato sacerdotale. Suvvia, non scherziamo. Ma davvero uno può credere che faccia una qualche differenza se ciò che Ratzinger ha scritto sul celibato – tipo: “La chiamata a seguire Gesù non è possibile senza questo segno di libertà e di rinuncia a qualsiasi compromesso” – compare in un libro a quattro mani o con altra veste editoriale? Stiamo parlando di un saggio, non di un atto magisteriale, dove lì sì che un conto è un’enciclica e tutt’altro conto un’esortazione apostolica. Veniamo al sodo: c’è stata una presa di posizione, ferma e inequivocabile, da parte di Benedetto XVI su una questione che se non gestita nel giusto modo rischia di avere conseguenze devastanti. Con l’aggravante che le conseguenze non sarebbero limitate all’Amazzonia, di cui con tutto il rispetto ci interessa assai poco, ma potenzialmente tutta la chiesa essendo, com’è noto, l’Amazzonia solo il grimaldello con cui i novatori comodamente seduti altrove (ad esempio in Germania) vorrebbero continuare nella loro opera di “modernizzazione”. Tutto il resto sono chiacchiere e distintivo. Tra l’altro, quando si parla di celibato spesso e volentieri viene sottaciuto un aspetto niente affatto marginale: posto che lo sanno pure i muri che esistono spinte e forze potenti all’interno della chiesa per sdoganare l’omosessualità, non è difficile immaginare che qualora la disciplina del celibato fosse rivista immancabilmente verrebbe posta la questione del matrimonio tra preti omosessuali. E anzi c’è chi sostiene che tutta questa bagarre sul celibato sia in realtà strumentale in vista del bersaglio grosso, appunto il matrimonio samesex anche per i preti. Certo, bisognerebbe prima normalizzare l’omosessualità. Ma visto l’andazzo, chi può dire che non accadrà? Una cosa almeno appare certa fin d’ora: tanto più adesso che anche Benedetto XVI ha parlato, è quanto mai auspicabile che la questione del celibato, in sé delicata e complessa più di quanto non si voglia far credere, venga maneggiata con estrema cura onde evitare problemi un pelo più seri di una (presunta) bagatella editoriale.
Luca Del Pozzo