Matteo Renzi (foto LaPresse)

Il sindaco d'Italia come rivincita del partito del 4 dicembre

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Renzi: premier gli italiani!

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - La tesi della lezione data da Intesa con l’Ops su Ubi Banca alla politica, esposta in maniera interessante da Lei con un editoriale del 19 febbraio, è condivisibile soprattutto perché oggi, dato il livello della politica, non è molto difficile impartirle delle lezioni. Tuttavia dell’operazione in questione molto dovrà essere chiarito soprattutto sotto il profilo strategico, non essendo una finalità ultima, per esempio, quella di collocarsi tra gli istituti protagonisti in Europa, che costituisce soltanto uno scopo intermedio. Le aggregazioni vanno valutate per la loro motivazione ultima che deve consistere nel corrispondere meglio alla ragion d’essere di una banca: sostenere con i finanziamenti imprese e famiglie, tutelare adeguatamente il risparmio, anche con riferimento alle nuove forme di gestione. Quanto alla trasformazione in spa delle Popolari, certamente il suo editoriale ha ragione nell’osservare la confluenza realizzata o possibile (nel caso di Ubi) di quattro di esse in altri istituti, dopo l’assunzione della nuova forma giuridica. Ma, in verità, la trasformazione non aveva lo scopo del loro assorbimento in altre banche. Questo, se fosse stata la “ratio” della revisione, ben avrebbe potuto essere realizzato anche restando Popolari (essendo da tempo ammessa l’incorporazione di istituti di questa categoria in altri in forma di spa). Lo scopo era diverso e gli stessi casi di “mala gestio” che emersero in tre di queste banche sarebbero stati accertati ugualmente, con tutte le problematiche che poi sono insorte. Sui contenuti, redatti in maniera assolutamente inadeguata, della riforma delle Popolari sarebbe opportuno discutere ancora. Con i più cordiali saluti.

Angelo De Mattia

Il vero punto, come mi faceva notare un nostro prestigioso collaboratore, è che rispetto alla ottima operazione tentata da Intesa Sanpaolo su Ubi le aggregazioni continuano a essere dentro i confini nazionali e non transfrontaliere. Questo non è certo colpa dell’Italia, ma è l’ennesimo e preoccupante segnale che l’unione bancaria stenta a nascere per davvero, e senza l’unione bancaria la moneta unica funziona male. Il vero campanello d’allarme, se vogliamo, è tutto qui.

 

Al direttore - Molto accomuna i due Matteo, nell’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della Sera di mercoledì. Davvero a distinguerli sarebbero solo le contingenze del momento politico? Renzi liberò la sinistra dall’antiberlusconismo; Salvini ha infettato l’Italia con la paura dell’immigrato. Renzi scrisse una riforma della Costituzione che perfino Scalfari e Zagrebelski alla fine approvarono; la prospettiva che Salvini possa vararne una, senza neppure dover indire il referendum, terrorizza tutti. Renzi fa eleggere uno straordinario presidente; Salvini dal Papeete chiede i pieni poteri. Renzi vorrebbe che il Pd non fosse succube del M5s; Salvini del M5s ha condiviso e sfruttato il populismo. Renzi cerca di cancellare la legge sulla prescrizione; Salvini la promosse. Renzi trasformando le maggiori banche popolari in società per azioni ha assestato un colpo al capitalismo di relazione; Salvini e i suoi inviati preferiscono gli alberghi di Mosca; Renzi fa Industria 4.0; Salvini quota 100. Renzi con il Jobs Act aumenta la flessibilità del mercato del lavoro; Salvini chiudendo gli Sprar, mette nell’illegalità i migranti, favorendo così il caporalato se non peggio. E si potrebbe continuare.

Franco Debenedetti

 

Al direttore - Dal punto di vista tecnico, a quanto si capisce, siamo nell'ambito delle cosiddette formule neoparlamentari. Si tratta, se così fosse, di un sistema che trova le sue prime origini nel dibattito francese della III Repubblica, poi proposto e ripreso successivamente nella crisi tra IV e V Repubblica, innanzitutto da Maurice Duverger. In Italia questa idea è stata molto coltivata dapprima dagli studiosi e poi ha avuto un certo seguito anche nell’opinione pubblica, in particolare tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, nell’ambito della strategia politica all’epoca promossa da Mario Segni e da coloro che ritenevano – a mio avviso correttamente – che il nostro Paese dovesse aprire, dopo i referendum del 1991 e del 1993, una stagione nuova di democrazia decidente, trasparente e responsabile, innanzitutto di fronte agli elettori. Quell’epoca – quella dello slogan “Il Sindaco d’Italia”, per semplificare – a guardarla oggi ha lasciato in eredità al nostro paese una legge assai utile ed importante, la legge 81 del 1993 sull’elezione diretta del sindaco (che poi ha ispirato anche le medesime leggi regionali, di qualche anno successive). Quella legge ha innestato, infatti, una logica di funzionamento virtuosa delle forme di governo delle nostre autonomie: perché, nel rinnovare la classe politica dirigente, l’hanno maggiormente responsabilizzata di fronte agli elettori; perché ha migliorato la trasparenza pubblica dell’agire politico; perché ha radicato negli elettori la consapevolezza che il loro voto conta (non a caso, in generale, l’astensionismo maggiore si registra a livello nazionale e non nelle autonomie locali). Insomma è una legge che ha cambiato in positivo il nostro paese, migliorando di certo il rapporto tra eletti ed elettori. In una battuta, dunque, la nostra democrazia. Per il livello nazionale, negli anni non sono mancate proposte in tal senso (echi importanti si ritrovano, ad esempio, già nella III Commissione bicamerale sulle riforme costituzionali, quella presieduta da Massimo D’Alema, fino ad arrivare all’inteso dibattito che ha accompagnato la proposta e il referendum costituzionale c.d. Renzi-Boschi del 2016). Sino a qui, tuttavia, si era pensato però quasi sempre a forme di legittimazione diretta – come nel caso nel testo della commissione di esperti voluta dal presidente Letta, appunto nella riforma del 2016 e in alcune delle proposte più recenti presentate in Parlamento da alcune forze politiche (storicamente dal Pd, innanzitutto) – ma mai, invece, a una vera e propria elezione diretta a livello nazionale. Perché? Perché questa proposta è sempre stata ritenuta troppo rigida, basata su un principio – o legati si sta insieme o legati si cade insieme, aut simul stabunt aut simul cadent – che rappresenterebbe un vincolo forte rispetto al parlamentarismo che conosciamo. In questo senso la proposta dovrebbe essere chiarita, dando margini ragionevoli di flessibilità. Ovviamente, in questo contesto, il sistema elettorale più coerente con questa proposta era la vecchia proposta del doppio turno di coalizione nazionale mentre non è compatibile con l’intesa politica, già presentata in Parlamento come progetto di legge, cioè il sistema proporzionale con la clausola di sbarramento del 5 per cento, perché in quel caso non garantirebbe una maggioranza e quindi ricadrebbe nei gravi difetti della deviazione israeliana, lasciando il premier eletto direttamente, appunto, senza una maggioranza parlamentare.

Francesco Clementi

Il proporzionale è uno sballo, in epoca di trucismo, ma se ci fosse un modo per portare il doppio turno a livello nazionale sarebbe un sogno. E sarebbe una magnifica rivincita del partito del 4 dicembre del 2016. Slurp.

 

Al direttore - Il nome Matteo deriva dal termine ebraico Matithya, composto da Matath, che significa dono, e da Yah, forma accorciata di Yahvè, il Dio di Mosè. Significa quindi dono del Signore. La politica italiana può vantarne addirittura due. E ho detto tutto.

Michele Magno

Per non parlare di Don Matteo, che come dice Fiorello è l’unico Matteo che al momento funziona in Italia.

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