(foto LaPresse)

Il manifesto di Draghi è un perfetto programma di governo. Ci scrivono Marattin e Magi

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore -

Giuseppe De Filippi


Al direttore - Come ha ricordato Mario Draghi sul Financial Times, abbiamo ormai una certezza: il debito pubblico dovrà passare come un gigantesco aspirapolvere a pulire tutte le scorie di questo enorme choc. Ma la vera questione – su cui sono possibili diversi scenari – è a quale costo potremo continuare a emettere debito sui mercati internazionali dei capitali. Lo scenario “migliore” è quello auspicato – strana la vita eh – sia dai paesi più rigoristi del nord Europa (Olanda, paesi scandinavi, forse Germania) sia dai loro acerrimi nemici, i sovranisti di casa nostra. E cioè che le attuali condizioni di rifinanziamento del nostro debito pubblico (circa 1,5 per cento sulla scadenza decennale) permangano non solo a fronte degli altri 300 miliardi che, a politiche invariate, da qui a dicembre dobbiamo prendere a prestito, ma a fronte di una cifra parecchio superiore. Al fine di reperire “da soli” sui mercati le risorse che ci servono. Il fronte rigorista nordeuropeo sembra essere convinto che le misure fin qui introdotte dalla Bce col Pandemic Emergency Purchase Programme (Peep), intervenendo sul mercato secondario dei titoli di stato per un ammontare di poco superiore ai mille miliardi di euro da qui a fine anno, sia sufficiente a tenere basso il costo di rifinanziamento di tutti gli stati membri. I sovranisti di casa nostra invece semplicemente se ne fregano: o perché pensano che la gente presti indifferentemente a chi ha un debito del 60 per cento e chi del 200 per cento, o perché sognano che la “Bce diventi come tutte le altre banche centrali del mondo e compri il nostro debito in asta!”, ignorando il fatto che in realtà nessuna Banca centrale al mondo compra i titoli in asta. Con l’eccezione di quella del Venezuela, non a caso paese-modello secondo alcuni statisti nostrani. Lo scenario “peggiore” è invece molto semplice: che lo scenario “migliore” sia solo un’illusione. E che quindi il costo di rifinanziamento del nostro debito – presto o tardi – cominci a salire. O perché i mercati giudicano insufficiente il Peep o semplicemente perché la crescente avversione al rischio sul mercato dei capitali comincerà a differenziare seriamente tra i debitori sovrani, trattandoli diversamente a seconda dell’ammontare del debito e della loro capacità strutturale a ripagarlo nel tempo. Non è chiaro al momento tra le forze politiche italiane quale sia il “contingency plan” in caso di scenario peggiore. Oppure nel caso in cui lo scenario migliore – che tutti auspichiamo – possa nel tempo evolversi in quello peggiore, perché purtroppo siamo costretti a considerare tutte le variabili in perenne e non prevedibile evoluzione. In molti sognano gli Eurobond, ma come ha spiegato magistralmente Lorenzo Bini Smaghi il 24 marzo su questo giornale, questa opzione può realizzarsi solo in presenza di un deciso (e da molti di noi auspicato) avanzamento del processo di integrazione economica europeo, comprensivo non solo di una non banale cessione di sovranità dal piano nazionale a quello Ue ma anche di una radicale riforma dei Trattati. Tutti noi, almeno noi europeisti, speriamo che, come già altre volte nella storia dell’integrazione del nostro continente, da questa crisi nasca una nuova accelerazione del processo federativo, che porti non solo agli Eurobond e a un bilancio unico, ma anche a una “more perfect Union”. Ma anche se così fosse, i tempi di realizzazione non coincidono con quelli della risposta alla crisi: abbiamo bisogno di molte risorse, e in tempi maledettamente brevi. E allora rimane una sola soluzione: utilizzare il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), sfruttando tutta la flessibilità presente nel Trattato istitutivo per adeguarlo alla situazione in atto. In particolare, si tratta di attivare una linea di credito rafforzata – già disponibile dal 2012 – con due modifiche: rendere nei fatti “formale” la Debt Sustainability Analysis (Dsa) implementandola simultaneamente per tutti i paesi Ue senza renderla ostativa per l’attivazione del credito, e ridurre al minimo le condizionalità contenute nel Memorandum of Understanding. Su quest’ultimo punto, quello più delicato, molti vorrebbero la totale assenza di condizionalità. Ma se esse fossero formulate semplicemente in termini di utilizzo delle risorse per spese una tantum legate all’emergenza (e non in termini di impegno a implementare “riforme strutturali”, per le quali adesso davvero non è aria), penso che difficilmente ci si possa opporre. Soprattutto perché su questo il “fronte del nord”, come già accennato, non sembra essere particolarmente ben disposto. E ogni accordo in questo senso richiede l’unanimità. L’opposizione sovranista (Lega e Fratelli d’Italia) ha espresso chiaramente la loro posizione: non si deve parlare del Mes, in nessun modo e in nessuna forma, pena essere accusati di alto tradimento di fronte al sovrano tribunale dei social. A questa posizione sembrano essersi accodati molti esponenti del M5s, sia con una lettera dei componenti della commissione Finanze, che con una delirante dichiarazione dell’eurodeputato Piernicola Pedicini pubblicata qualche giorno fa su questo giornale. Luigi Di Maio, in un’intervista al Corriere della Sera ieri, sembra aver messo il sigillo ufficiale a questa posizione, dicendosi contrario al Mes in quanto “farebbe nuovo debito” e auspicando invece i “Coronabond”. Che evidentemente, in questa mirabolante evoluzione della teoria economica, per il ministro degli Esteri non sarebbero debito. Così come, sempre secondo questa peculiare visione, non sarebbero nuovo debito i 25 miliardi emessi per finanziare il Dl “Cura Italia”. Non è quindi chiaro quale sia la ricetta suggerita dall’opposizione sovranista (e a questo punto dal M5s) in caso si verificasse ora o più avanti lo scenario “peggiore”. Finora si è parlato di ulteriore potenziamento del Qe, ad esempio essendo più espliciti sulla rimozione della capital key per la proporzionalità degli acquisti (di fatto già annunciata, tra l’altro). Ma, come già spiegato nei giorni scorsi, questa soluzione dimentica che per quanto forte sia il Qe, esso non fornisce direttamente liquidità alle casse dello stato. E per quanto possa abbassare il costo marginale del debito, non può essere un’assicurazione perenne contro il default. A meno di non confondere una Banca centrale con la fatina dagli occhi blu, che ti permette con un tocco di bacchetta magica di fare sempre, comunque e dovunque quello che accidenti ti pare. Questa crisi, ci ripetiamo spesso in questi giorni, deve renderci più forti e solidi di prima. Giusto. Speriamo valga non solo per la nostra economia, ma pure per la classe politica.

Luigi Marattin, deputato di Italia viva 

 

Non c’è scelta di politica economica, che riguardi l’Europa, che non preveda, come ha scritto Lorenzo Bini Smaghi sul Foglio, il trasferimento a livello comunitario di alcune decisioni che sono attualmente di pertinenza nazionale o regionale. Dai ticket sanitari alle imposte per finanziare i costi di struttura e di funzionamento, dai contratti dei medici e paramedici alle decisioni su quali ospedali tenere aperti e quali eventualmente chiudere. Chi crede al sovranismo europeo, crede che l’interesse collettivo sia un bene infinitamente superiore all’egoismo nazionale. Chi crede al sovranismo nazionalista, crede che l’egoismo nazionale sia un’ideologia da difendere anche a costo di andare contro gli stessi interessi di un paese. Scegliere da che parte stare non dovrebbe essere così difficile. Grazie. 


 

Al direttore - L’enorme sacrificio di vite umane, quello degli operatori sanitari in prima linea, quello di 60 milioni di italiani chiusi in casa per settimane non può non indurre il governo a fare ricorso a tutte le migliori competenze e risorse esistenti. Per questo è necessario ascoltare quella parte consistente della comunità scientifica italiana, degli Ircss, dei principali istituti di ricerca biomedica, che si è rivolta al presidente del Consiglio e ai presidenti delle regioni con un appello sottoscritto da 300 scienziati e ricercatori. Il documento indica le risorse e le competenze già pronte per un piano nazionale anti contagio basato sul coordinamento di una rete di laboratori a livello nazionale in grado di realizzare test ripetuti sulle categorie a rischio, consentendo “l’identificazione precoce di casi asintomatici e l’immediato isolamento degli stessi e dei contatti diretti”. Gli scienziati infatti mettono in luce che “le attuali strategie di contenimento basate sull’identificazione dei soli soggetti sintomatici non sono sufficienti alla riduzione rapida dell’estensione del contagio” e offrono al governo e al paese una strada da percorrere subito e che stupisce non sia già stata imboccata con decisione, se si considera che la dichiarazione dello stato d’emergenza risale alla fine di gennaio. Il distanziamento sociale messo in atto serve infatti a guadagnare tempo per diluire l’impatto sul sistema ospedaliero, ma deve servire al contempo a mettere a punto una strategia per affrontare l’emergenza e per dare al paese una prospettiva di uscita da essa. Il tempo guadagnato grazie a queste misure drastiche, e allo sforzo comune di tutti i cittadini, deve essere impiegato a rafforzare i reparti di terapia intensiva, a mettere a punto protocolli ancora più stringenti per gli ingressi in ospedale, a reperire le mascherine, ma anche a mobilitare tutte le risorse e le competenze scientifiche per fortuna presenti ai massimi livelli nel nostro paese. Non ha senso che i vertici della Protezione civile e gli esperti tecnici che affiancano il governo riconoscano che “sulle mascherine siamo arrivati tardi” o che non si sono fatti tamponi su più larga scala per la bassa disponibilità di kit, se ora non si coinvolgono tutte le infrastrutture nazionali adeguatamente attrezzate nell’obiettivo di fare test periodici sulle fasce più esposte e ad alto numero di contatti che sono stati e rischiano di essere ancora i vettori principali di diffusione dell’epidemia. Questo scatto potrebbe rendere utili e utilizzabili anche le procedure di tracciabilità a ritroso dei contatti avuti dai cittadini positivi, altrimenti anche questo dibattito sul conflitto tra salute pubblica e privacy avviene a un livello puramente astratto. Solo con questo sforzo sul piano scientifico e organizzativo, il paese potrà dire di avere una strategia in grado di fronteggiare la drammatica situazione e di onorare il sacrificio di molti nostri concittadini. Il ricorso alla retorica bellica non solo appare fuori luogo ma del tutto abusato se a esso non corrisponde un reale ricorso immediato a tutte le energie, le competenze e le risorse del paese. Cosa si aspetta? 

Riccardo Magi, deputato di Più Europa 


 

Al direttore - “Pochi avranno la grandezza necessaria a piegare la storia, ma ciascuno di noi può operare per modificare una minuscola parte degli eventi e tutte queste azioni formeranno la storia di questa generazione”. Robert Francis Kennedy, Cape Town 1966. Oggi, in Italia, le parole di mio padre Robert Kennedy riecheggiano nell’onda di speranza (Ripple of Hope) rappresentata da tutte quelle persone schierate in prima linea contro un nemico tanto insidioso, quanto invisibile, il Covid-19: sono medici, infermiere e infermieri, forze dell’ordine, militari, addetti alle pulizie e alle sanificazioni, ma anche lavoratrici e lavoratori di tanti comparti, e volontari. Tutti impegnati in una guerra senza sosta per fermare il contagio. La Robert F. Kennedy Human Rights Italia (www.rfkitalia.org), impegnata nella difesa dei diritti umani in Italia, in particolare nelle scuole, ha deciso di dedicare risorse ed energie ad aiutare quegli “angeli” che ogni giorno sono in prima linea per tutti noi. Avremo l’onore di ospitarne alcuni presso la nostra sede di Firenze dove abbiamo 12 stanze. Sono davvero emozionata che la nostra organizzazione potrà in qualche modo essere utile in questa difficile sfida. E per questa ragione abbiamo lanciato una campagna di raccolta fondi per la Protezione civile sia in Italia sia negli Stati Uniti, un ponte ideale tra due paesi uniti nella stessa lotta. “Dobbiamo avere tutti un sogno: il sogno di un mondo migliore, che sapremo costruire attraverso l’amore, l’empatia e il rispetto reciproco”, in queste parole, che ho pronunciato il mese scorso all’Università Cattolica di Piacenza, si racchiudono i valori che l’Italia sta dimostrando al mondo. Per poter partecipare: www.gofundme.com/f/RFK-Italia-per-la-protezione-civile.

Kerry Kennedy 


 

Al direttore - Alla vigilia di un cruciale vertice dell’Ue, Mario Draghi scrive un articolo sul Financial Times che segna uno spartiacque sul futuro dell’Europa. Salvo poche eccezioni, la politica italiana lo registra distrattamente e con sospetta pigrizia mentale. Non me ne vogliano il bravo premier Conte e quell’onestissimo uomo che è il presidente Mattarella, ma con la sua mossa l’ex governatore della Bce conferma che è l’unica personalità autorevole che abbiamo in grado di tenere testa alla Germania e ai suoi satelliti. L’idea di un governo di unità nazionale da lui guidato ora non è praticabile, e credo che nemmeno sia nelle sue corde. Tuttavia, se siamo in guerra (come tutti affermano), ci vuole un generale che conosca l’arte della tattica e della strategia militare. Fuor di metafora, nulla osta a che – accanto a quello per l’emergenza sanitaria – venga nominato anche un commissario straordinario per l’emergenza economica, con poteri di trattativa a Bruxelles. Si prenda pure questa proposta solo come una provocazione intellettuale, ma la casa sta bruciando e, quindi, c’è bisogno di pompieri che conoscano bene il loro mestiere. Perché (copyright di Matteo Renzi) non si può morire di coronavirus, ma nemmeno di fame.

Michele Magno 

 

Ci sono molti spunti interessanti nel formidabile contributo inviato al Financial Times da Mario Draghi. Ma tra i tanti, quello che dovrebbe far riflettere – oltre al passaggio sul debito – riguarda il passaggio sul lavoro. “La priorità – ha scritto Draghi – non deve essere solo offrire un reddito di base a chi perde il lavoro – spiega. Dobbiamo proteggere la gente dalla perdita del lavoro. Se non lo facciamo emergeremo dalla crisi con una permanente occupazione più bassa”. Anche in tempi di crisi, dunque, la priorità non deve essere spendere tutto ciò che è necessario spendere per sussidiare chi rimane a casa, anche senza lavoro, ma è spendere tutto ciò che è necessario spendere per aiutare chi deve creare lavoro a crearne sempre di più. Un perfetto programma di governo. 


 

Al direttore - Certamente il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, avrebbe potuto spiegarsi meglio, ma non ha fatto delle affermazioni allarmistiche e strampalate, quando ha detto che l’Inps dispone di risorse sufficienti a erogare le pensioni solo fino a maggio. Il sistema pensionistico è finanziato col criterio della ripartizione ovvero le pensioni in essere sono pagate dai contributi prelevati, nello stesso arco temporale, dalla produzione e dal lavoro. In sostanza sono gli attivi di oggi che hanno in carico i pensionati di oggi, essendo i loro versamenti, da lavoratori in attività, serviti a finanziare le pensioni di ieri. Sembra evidente che se si chiudono le fabbriche, si sospende la riscossione dei contributi, il ciclo si interrompe. Ciò non significa che le pensioni non saranno pagate, dal momento che interverrà lo stato – come è suo obbligo – per far fronte alle esigenze di cassa dell’Inps. Al più presto, però, la situazione dovrà normalizzarsi e dovranno tornare a girare le macchine negli opifici.

Giuliano Cazzola

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