I virus ieri e oggi. Per la pandemia economica non si vedono anticorpi
Al direttore - Ho letto, come tutti i giorni, il suo editoriale di lunedì da cui ho appreso dei dati che testimoniano il successo della repressione contro chi ha violato – dall’11 marzo al 17 aprile – gli obblighi imposti dalla quarantena. Non serve – è fatto benissimo nell’articolo – ripetere i numeri dei controlli effettuati, delle contravvenzioni, delle denunce, della chiusura di negozi. Sulla base di questi numeri (pari al 3,8 per cento degli 8 milioni di controlli realizzati) lei sostiene che gli italiani hanno dato prova di “un senso di comunità sorprendente”. Io trovo, invece, che nessuno stato di polizia sarebbe altrettanto efficiente nel perseguitare, con tutti i mezzi possibili (anche di elevata tecnologia), persone e famiglie che si comportano come d’abitudine (chi contagiava quel signore sdraiato da solo sulla spiaggia deserta di Mondello?) senza far male a nessuno. Solo un paese impazzito può imporre e accettare gli stili di vita che conduciamo da settimane. Ho invece condiviso, nell’elzeviro di Paolo Nori, quanto afferma al cpv 22 il signor Domenico, secondo il quale “abbiamo assistito a una sagra di stupidità che non fa molta differenza rispetto a quelle precedenti’’. Poi Domenico ricorda che “la morte resta una delle cose con cui bisogna fare i conti’’. E che gli anziani (come lui al pari di chi scrive) hanno il diritto di morire nelle loro case, tra l’affetto dei loro cari invece che intubati “perché la morte va sconfitta a tutti i costi dentro un ospedale’’. Proprio così, Domenico: la morte è solo un episodio dell’esistenza. Grazie per averlo ricordato.
Giuliano Cazzola
Caro Cazzola, so che lei non la pensa così ma deve arrendersi alla realtà. L’Italia, pur commettendo molti errori – d’altronde, come ha scritto su Twitter Guia Soncini, se non ti sorprende a braghe calate una malattia che prima non esisteva vorrei capire esattamente cosa dovrebbe sorprenderci – penso che potrà considerarsi soddisfatta rispetto a come ha contenuto l’epidemia, a come ha gestito questa fase, al numero di vite che ha salvato e lo stesso vale per gli italiani che come ho provato a spiegare lunedì hanno dimostrato con i fatti di non essere irresponsabili come vorrebbero descriverli alcuni talk-show in cerca di capri espiatori. Se c’è un elemento che può preoccupare rispetto al futuro quell’elemento non è ciò che abbiamo fatto per contenere l’epidemia del Covid-19 ma è ciò che faremo per contenere l’epidemia economica creata dalle politiche di contenimento della malattia. La morte è certamente solo un episodio dell’esistenza ma uno stato che considera la difesa della salute dei suoi cittadini come un valore non negoziabile e che fa di tutto per tutelarla è uno stato che merita rispetto e non derisione. Grazie e un caro saluto.
Al direttore - Sul processo di integrazione europea iniziato nel 1950 con la proposta di costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio ha sempre pesato il dubbio se si trattasse di un percorso verso la nascita di uno stato federale o di un semplice accordo di cooperazione in campi specifici fra paesi indipendenti e sovrani. Per lungo tempo è sembrato saggio non porsi esplicitamente il quesito. Ma vi sono stati momenti in cui le circostanze hanno costretto a prendere decisioni impegnative. Uno fu la crisi del sistema di Bretton Woods all’inizio degli anni Settanta e il passaggio dai cambi fissi ai cambi fluttuanti. Decidendo di mantenere i cambi fissi al proprio interno, l’Europa scelse un crescente vincolo di interdipendenza fra gli stati membri. Altrettanto avvenne nel 1989 alla caduta del Muro di Berlino: anche allora l’introduzione della moneta unica ribadì la scelta dell’unità politica. Dall’inizio degli anni 2000, con l’emergere della Cina come potenza mondiale con evidenti ambizioni di espansione e di influenza politica fuori dal proprio territorio, con il progressivo cambiamento dell’atteggiamento degli Stati Uniti verso l’Europa, culminato nella presidenza Trump in cui è evidente il desiderio di non condividere se non con la Cina il ruolo di potenza mondiale e con il riemergere della Russia di Putin, il problema del destino dell’insieme dei paesi che formano l’Unione europea è nuovamente all’ordine del giorno e lo è in termini cogenti. L’Europa è il campo di battaglia di uno scontro in cui essa rischia non di finire in una unica zona di influenza, ma di balcanizzarsi come accadde fra le due guerre mondiali. Già oggi, per restare all’Italia, vi sono uomini politici che lavorano per costituire relazioni “speciali” con la Russia o con la Cina. L’oggetto politico del prossimo Consiglio europeo non può ridursi all’individuazione di un mix di misure economiche per fronteggiare la crisi. Non può essere esclusivamente di consentire ai singoli partecipanti di tornare nelle rispettive capitali e respingere l’accusa delle loro opposizioni interne di avere ceduto alle pretese abnormi degli altri. Non può essere di consentire a Conte di prendere i soldi del Mes superando le obiezioni della destra e di parte dei 5 stelle, né alla Merkel di accettare un intervento che preveda anche un qualche debito europeo senza subire troppi attacchi dalla destra del suo partito e dalla AfD. Se si punta solo a questo risultato, esso è probabilmente alla portata del Consiglio europeo avendo l’Eurogruppo già dissodato a sufficienza il terreno. Ma non sarebbe un passo adeguato alla crisi della costruzione europea. Sarebbe un successo effimero e le forze politiche euroscettiche alla lunga riprenderebbero fiato. L’Europa deve rispondere alla crisi dichiarando la irreversibilità del processo di costruzione dell’unità europea, così come Mario Draghi dichiarò a suo tempo l’irreversibilità dell’euro. Accanto agli strumenti già individuati o delineati dall’Eurogruppo, il Consiglio europeo dovrebbe immaginare un organo nuovo che sia il segno evidente della volontà politica di affrontare la crisi del coronavirus come una sfida politica per l’Europa nel suo insieme. A questo “plenipotenziario per la ricostruzione”, emanazione diretta del Consiglio e in contatto diretto con le altre istituzioni europee, deve essere affidato il compito di proporre interventi nuovi e di preparare il colloquio con le altre grandi aree del mondo al fine di ricostruire le relazioni economiche internazionali e evitare il ritorno del protezionismo. Se i capi di stato e di governo dell’Europa non capiscono di essere davanti a un momento storico di svolta, come quello della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 1776 o quello della lettera di Schuman del 1950, essi potranno pure tornare a casa pensando di avere fatto un buon lavoro. Ma in realtà avranno avvicinato il momento del fallimento del sogno europeo.
Giorgio La Malfa e Massimo Andolfi