Draghi, Renzi e il realismo che non è un'eresia se permette di cambiare

Al direttore - Marco Bentivogli sta passando dal sindacalismo al profetismo, come si evince dal suo pezzo di ieri qui, e questo è confortante. Dovrebbe anche evitare il semplicismo. Riassumere le mie notazioni degli ultimi tempi come un “dobbiamo fermare le destre” è troppo facile: io cerco la destra dove altri non la trovano, tra i gentiluomini che danno libero corso al banale e al saccente, e sono tanti. E’ cosa diversa dal “dobbiamo fermare le destre”, programma minimo che un riformista profetico non dovrebbe irridere. Quanto al poco e al possibile, non ho scritto che bisogna cercare “il poco possibile”, sono rincoglionito ma up to a point. Ho scritto in lode del “poco del possibile e del possibile del poco”. I concettini sono rari sui giornali, vanno pesati e confutati, non banalmente deformati. Non sono Talleyrand ma nemmeno un profeta, cerco di ragionare e amo le citazioni appropriate e complete. Grazie.

Giuliano Ferrara

 


 

Al direttore - “Quando i fatti cambiano, cambio la mia idea. Lei cosa fa?”. Draghi adotterà la frase attribuita a Keynes per replicare (lo ricorda Marco Cecchini nel suo “L’enigma Draghi”) a chi gli chiede conto del suo “pragmatismo e della sua adattabilità alle circostanze”. In realtà il pragmatismo di Draghi si fonda su una connessione tra conoscenza e azione finalizzata a ottenere risultati concreti. Sembra ispirarsi, Mario Draghi, a una concezione del mondo che, sulla base di un impiego ragionevole delle risorse umane, ammette la possibilità, non garantita, del progresso. Lo stesso sostenne un grande del pensiero economico, Luigi Einaudi che, nel confronto polemico con Benedetto Croce, ammise che “di fronte ai problemi concreti, l’economista non può essere mai né liberista, né interventista né socialista ad ogni costo… ogni problema deve avere una soluzione sua propria, dettata da un appropriato calcolo di convenienza… se la soluzione è liberistica essa si impone non perché liberistica ma perché è più conveniente delle altre”. Questo prima di Keynes…

Umberto Ranieri

 


 

Al direttore - “Siamo a un tornante decisivo della politica italiana” (Goffredo Bettini, il Foglio di ieri). Con un incipit così, che ricorda gli editoriali di Berlinguer all’epoca della solidarietà nazionale, tu ti aspetteresti un annuncio sensazionale, una svolta strategica, la candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Repubblica. Invece, leggendo l’articolo scopri che è stato concepito per sollecitare Matteo Renzi a passare il Rubicone, e assumere d’imperio la leadership del polo moderato e liberale del nuovo campo riformista (immagino l’esultanza di Emma Bonino e Carlo Calenda). Ovviamente, il consigliere del Nazareno anche questa volta non perde l’occasione per impartire ai filosofi della domenica una lezione di Realpolitik: il dicastero Conte ha salvato l’Italia; i Cinque stelle non sono i migliori alleati possibili, ma per ragioni di principio non si può mettere in discussione l’avvenire democratico del paese; e poi grazie al Pd sono cambiati, e hanno capito quanto sia complesso governare. Sono talmente cambiati che Vito Crimi ha spiegato sul Corriere della Sera che non hanno alcuna intenzione di allearsi con il Pd alle regionali, e che per lui il partito di Zingaretti e quello di Salvini pari sono. Ma poco importa se il gerarca minore ci umilia, sembra dire Bettini. Perché il Pd c’è, con tutti i suoi valori: pragmatico e profetico, laico e socialista, cristiano e umanista, avverso alla rendita e alla pura logica del profitto. E’ lo stesso Pd, però, dei Michele Emiliano e di Francesco Boccia, di quota 100 e dei navigator, dei sessantamila assistenti civici e dei decreti sicurezza, del no al Mes e del sì al taglio dei parlamentari. Anche se quest’ultimo – ammonisce Bettini – è solo un punto di un accordo complessivo che va rispettato, per cui la legge elettorale va approvata almeno in ramo del Parlamento prima del voto referendario (non è una barzelletta). Hegel era un ammiratore di Machiavelli (come Bettini, credo) di cui aveva tessuto le lodi già nell’opera giovanile sulla costituzione della Germania. In politica era un realista (come lo è Bettini) che sapeva quale posto dare alle chiacchiere dei predicatori quando entrano in campo gli ussari con le loro sciabole luccicanti. Forse che la maestà dello stato, chiedeva retoricamente nella “Fenomenologia dello spirito”, “di quella ricca membratura dell’ethos in sé che è lo stato”, deve chinarsi dinnanzi a coloro che vi contrappongono la “pappa del cuore, dell’amicizia e dell’ispirazione?”. Penso che la risposta di Bettini sia scontata e, si parva licet, in questo caso lo è anche la mia. Tuttavia, la sgradevole impressione è che in questo “tornante decisivo della politica italiana” per la maggioranza giallorossa la posta in gioco sia, più che la salvaguardia della “salute della patria”, la sopravvivenza di un puro patto di potere. Posso sbagliare, beninteso, ma per le anime belle come chi scrive il Pd resta – parafrasando Winston Churchill – un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma.

Michele Magno

 

Lettera come sempre stimolante, caro Magno. Mi consenta però qualche mini riflessione. Primo: conosce un patto di governo che non sia anche un patto di potere? Io no. Secondo: le sembra un’idea malvagia suggerire al Pd di trasformare l’alleanza con Renzi non in una fonte di conflitto permanente ma in una fonte di sana competizione all’interno del governo? E, terzo, le sembra un’eresia, preso atto del fatto che questo Pd sembra avere difficoltà a schiodarsi dal 20-24 per cento, sperare che possa nascere un polo moderato capace di arrivare laddove il Pd non riesce ad arrivare? Lo è, un’eresia, se si pensa a un Pd capace di essere ancora la calamita dei progressisti e dei moderati e di puntare da solo al 40 per cento. Non lo è, un’eresia, se si pensa a un Pd non in grado di essere autosufficiente e dunque autonomamente maggioritario. E infine, quarto punto, davvero un mago dell’analisi politica come lei non si rende conto del fatto che per l’ex primo partito d’Italia, il M5s, avere un capo come Vito Crimi, un gerarca minore con i poteri di un amministratore di condominio in pensione impegnato a giustificare ogni giorno la castizzazione del M5s con scene comiche degne del miglior Grillo, è una dimostrazione ulteriore della trasformazione del grillismo in una tigre di cartone? Il Pd resta, come dice lei, un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma.  Ma un anno dopo la nascita del governo rossogiallo, vista l’alternativa incarnata dal modello Salvini, c’è un altro aforisma attribuito a Churchill che andrebbe ricordato: “Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare”.

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