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Il punto giusto sulla pandemia: convivere con il virus o vivere per esso?
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Marco Minniti, in un’intervista all’Huffington, sostiene che il Pd non ha bisogno di un congresso ma di una Costituente. Più che altro servirebbe una bella purga e un ricostituente.
Valerio Gironi
Marco Minniti, in quella bellissima intervista, ha detto anche un’altra cosa, più interessante della Costituente. “Che il taglio non sia una compiuta riforma è squadernato sotto i nostri occhi. Ma è proprio questo il punto. Un no oggi rischia di chiudere la porta a qualunque processo riformatore delle istituzioni italiane. Il sì obbliga in ogni caso, e soprattutto la sinistra, a battersi per un assetto che completi la democrazia decidente: dal superamento del bicameralismo perfetto al potere del premier, a un nuovo rapporto tra Stato e poteri locali”. Perfetto, no?
Al direttore - Vedo che ogni giorno i quotidiani e i siti di informazione ci informano sul numero di contagiati di ciascun paese. Ha ancora senso quel numero?
Luca Martelli
Probabilmente ha più senso un altro numero, quello delle terapie intensive, ma non vedo criticità nell’offrire ogni giorno il dato su quale sia il trend del contagio. Il punto è come comportarsi di fronte a quei numeri. A questo proposito, ho letto ieri uno splendido editoriale pubblicato dal Wall Street Journal sul tema della convivenza con il virus, scritto da Joseph A. Ladapo, associate professor alla Ucla David Geffen School of Medicine. La sua tesi è semplice e lineare e vale la pena ragionarci su: “La battaglia contro il Covid-19 sta entrando in una nuova fase e la scelta che deve fare la nostra società è se convivere con il virus o vivere per esso”.
Al direttore - Sono d’accordo con lei, gentile Maurizio Crippa: non se ne può più di questa contrapposizione tra uomini e donne! E d’altra parte la ricerca psicosociale sta dimostrando in questi ultimi anni che interventi a favore delle donne (o di altre minoranze) che utilizzano la narrativa del conflitto sono del tutto controproducenti: non fanno altro che innalzare, come lei stesso ci dimostra, la percezione di minaccia da parte dei membri del gruppo maggioritario (in questo caso gli uomini) e quindi portare a un inasprimento controproducente delle posizioni. Ma le soluzioni che lei ci propone purtroppo sono altrettanto fallimentari… la ricerca ci ha anche dimostrato in modo inequivocabile che la misurazione del QI è fortemente influenzata dagli stereotipi negativi. Per spiegarmi meglio, la misurazione del QI non è “oggettiva” perché se a una studentessa prima di compilare un test di matematica si ricorda in maniera più o meno esplicita che “le donne non sono brave in matematica”, in maniera inconsapevole tenderà a confermare lo stereotipo e quindi la sua prestazione sarà inferiore a quella di uno studente. Viceversa se la formulazione del compito avviene in maniera neutra la prestazione di uomini e donne non si differenzierà. Il fenomeno, molto noto tra gli studiosi di Psicologia sociale, si chiama minaccia legata allo stereotipo. Inoltre, sempre la ricerca dimostra il ruolo fondamentale dei role model sulle nostra motivazioni, scelte e comportamenti professionali. Se quindi una talentuosa studentessa non potesse vedere una donna come relatrice di un convegno – se non molto raramente – difficilmente potrà formulare un progetto professionale mirato al raggiungimento di quella posizione sociale. La stessa cosa invece non accadrebbe per uno studente talentuoso. E così quello che lei ci propone non farebbe altro che perpetuare tra le generazioni uno status quo che non fa bene a nessuno… neanche agli uomini. Questo perché, sempre la ricerca, dimostra che la presenza di persone di gruppi differenti (per genere, per etnia, etc) nei gruppi di lavoro porta a un importante arricchimento in termini di creatività e di performance. E la nostra società ne ha un immenso bisogno.
Claudia Manzi