Enciclica e mercato: i cristiani possono non dirsi globalizzatori?
Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 9 ottobre 2020
Al direttore - Azione? Circoscrizione.
Giuseppe De Filippi
Quando Calenda el sol.
Al direttore - Giustamente Daniele Menozzi (nel Foglio di ieri) individua nella parabola del cosiddetto “buon samaritano” il modello che, per Francesco, dovrebbe condurre la chiesa a una rinnovata capacità di rendere nuovamente attrattivo il Vangelo agli occhi di un mondo che sempre più vive “etsi Deus non daretur”, per dirla alla Benedetto XVI. Senza entrare nel merito dei molteplici atteggiamenti in cui in concreto il modello del “buon samaritano” si articola a seconda dei tanti problemi che affliggono la società, atteggiamenti tutti ultimamente riconducibili alla “fratellanza” nei confronti del prossimo, ciò che qui preme sottolineare è che non sembra essere stato sufficientemente messo a fuoco il cortocircuito, o se si vuole il limite di tale approccio: il fatto cioè che non c’è bisogno di essere cristiani per essere dei buoni samaritani. Anzi, a dirla tutta non c’è neanche bisogno di essere credenti (come dimostrano per altro le tante, tantissime e lodevoli iniziative umanitarie, caritatevoli e di solidarietà assolutamente “laiche” sparse per il mondo). Dal che la domanda, visto che l’obiettivo finale è rendere più attrattivo il Vangelo, se e in che misura il modello del “buon samaritano” sia il più adatto allo scopo. Se cioè esso sia davvero in grado di far emergere il proprium del Vangelo o non si corra piuttosto il rischio di abbassare le pretese e le aspettative del messaggio evangelico, rendendo il cristianesimo un qualcosa di, tutto sommato, anonimo. E’ difficile, per non dire impossibile, che ci si senta attratti da ciò che è alla portata di tutti.
Luca Del Pozzo
Al direttore - Non si può invocare una società più aperta contestando la libertà di mercato, lei ha giustamente osservato. Al netto di questa significativa contraddizione, l’enciclica “Fratelli tutti” però non merita, a mio avviso, talune critiche radicali che le sono piovute addosso in queste ore. Non penso tanto ai nemici giurati di Papa Francesco. Questi l’hanno addirittura definita una “Professio fidei massonicae”, come monsignor Carlo Maria Viganò sul blog del vaticanista Aldo Maria Valli. Penso piuttosto a quei cattolici dubbiosi sul concetto di fraternità declinato dal Pontefice, con l’enfasi esclusiva posta sulla sua dimensione universale, troppo debitrice del 1789. Nella sua lettera di qualche giorno fa, Luca Del Pozzo ha scritto che “anche l’ateo più convinto sa perfettamente (poi magari non lo dice) che questa storia [della civiltà europea] sarebbe stata semplicemente impossibile senza il cristianesimo”. Voglio rassicurarlo: io, agnostico nel senso precisato da Thomas Huxley nel 1889, sono tra quelli che invece lo riconosce apertamente. Lo riconosco fin da quando lessi il celeberrimo “Perché non possiamo non dirci ‘cristiani’” di Benedetto Croce (1942). Certo, il saggio riflette lo sconforto dell’allora vecchio filosofo di fronte al neopaganesimo nazista. Certo, il suo cristianesimo non è un miracolo della trascendenza ma un processo della storia, che “opera al centro della coscienza morale e quindi anima più di ogni altra l’etica della fraternità”. E’ per lui la rivoluzione che rimuove il politeismo pagano, eredita il lascito dell’impero romano, civilizza popoli e costumi barbari, si erge a protettrice dell’Europa contro l’islam, illumina i secoli bui con il primato del potere spirituale sul potere armato. Ma con il procedere del processo storico, aggiunge don Benedetto, per un verso il rapporto fra la religione e la chiesa si irrigidisce in dogmi, sacramenti, gerarchie, discipline, tribunali, patrimoni; e per altro verso, poiché “il pensato non è mai terminato di pensare”, i valori morali del cristianesimo esulano dalla fede raccolta nei miti. E poiché nella storia tutto ciò che avanza si trasforma, quei valori morali continuano in forme nuove: nel Rinascimento che accantona l’ascetismo medievale; nella Riforma che reinterpreta il magistero di Paolo; nelle nuove risorse civili prodotte dal progresso delle scienze e del diritto; nell’Illuminismo che dissolve le superstizioni; fino agli idealisti e storicismi che fondano il concetto della realtà come storia, e ai filosofi del liberalismo come Kant. Tutti nella lista degli autori relegati all’Indice; e tutti eredi in qualche modo della rivoluzione cristiana e anticipatori della modernità, che ancora nel tardo Ottocento sarebbe stata oggetto dei vani anatemi del Sillabo. Ma di fronte alla barbarie che minacciava la morte della civiltà, Croce scelse di risalirne il corso fino alle fonti, affinché i figli della storia si riconoscessero figli del cristianesimo. Nonostante la commozione retorica con cui lo descrisse, il cristianesimo di Croce rimane quindi totalmente laico. Si parva licet, come il mio.
Michele Magno
Lettera molto bella, caro Magno, ma rispetto alle contraddizioni dell’enciclica c’è un altro spunto interessante su cui si sofferma il Wall Street Journal e che vale la pena di riportare: “Il messaggio generale veicolato da Papa Francesco è quello di incoraggiare la cultura della solidarietà fraterna tra gli individui, andando oltre i confini e le culture. Eppure non sembra mai considerare come la natura volontaria dello scambio di mercato possa contribuire a tale obiettivo, perché radica il successo economico nell’anticipare e soddisfare i bisogni degli altri. Questo non è l’amore del prossimo comandato dal Vangelo. Ma sicuramente non è così lontano dalle Scritture come invece afferma Papa Francesco”. Della serie: perché i cristiani non possono non dirsi globalizzatori.