La gay culture, Scalfarotto e l'orgoglio della diversità: non è solo una questione di anagrafe
Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 27 ottobre 2020
Al direttore - Insomma per i tamponi le regioni puntano sull’astensione.
Giuseppe De Filippi
Governare la pandemia limitando i tamponi ai positivi sintomatici è come voler fare una dieta truccando la bilancia.
Al direttore - Ivan Scalfarotto scriveva sabato qui che lui non è omosessuale per scelta o per preferenza ma per costituzione naturale, è fatto così, si è innamorato solo di maschi, lui maschio, e quindi sono civili e belle le benedizioni laiche o clericali dei diritti connaturali a questa condizione eguale o perfettamente parificabile a quella eterosessuale. Va bene, e lo dico con simpatia: chi sono io per giudicare? Resta aperta però la questione che ho cercato di porre, e non mi pare grossolanamente sofistica. Io sono “libero di amare”, amare persone diverse, amare il sesso a me opposto o il sesso a me affine e amare altrimenti. Ma per essere “libero di amare” non dovrei, a rigore, essere schiavo, diciamo pure schiavo d’amore, della mia costituzione naturale o identità sessuale, preformata e predefinita. Non mi pare che la gay culture abbia soltanto posto un problema di regolare l’iscrizione all’anagrafe matrimoniale, fosse così il tutto avrebbe un interesse decisamente minore. Da Sodoma a Alcibiade, da san Paolo a Cavafis a Proust a Forster, detto così, a capocchia, l’elaborazione dell’amore, nella sua variante “contro natura”, ha dato da pensare in tema di preferenza, orientamento, desiderio, peccato, colpa. Mi pareva che, decidendosi a dire il proprio nome con la gay culture, un amore per millenni semisommerso in una sua estetica socialmente intrattabile volesse dare un’impronta al tempo moderno, e darla con un’istanza di libertà che è insieme una critica della famiglia tradizionale e del matrimonio cristiano. Siamo così perché siamo diversi, e vogliamo riconosciuta la diversità. Se era per una semplice ratifica anagrafica, mi può dire gentilmente Scalfarotto come mai ne venne per tanti secoli un pregiudizio?
Giuliano Ferrara
Al direttore - Caro Cerasa, obbediremo nonostante che le ultime misure di “mitigazione” siano prive di senso e colpiscano attività economiche che hanno rispettato i protocolli per poter riaprire dopo il lockdown di primavera. La logica dei dpcm è la stessa della decimazione. Infine se fossi il gestore di un ristorante obbligato a chiudere alle 18 (dopo aver servito la merenda?) mi sentirei, mi scusi il termine, preso per il sedere.
Giuliano Cazzola
Sul tema dei ristoranti, Matteo Renzi ieri si è posto due domande giuste. Primo: a cena il Covid fa più male che a pranzo? Secondo: perché per chi si era attrezzato per convivere con il Covid valgono le stesse regole di chi non si era attrezzato? Per il resto, calma, molti aiuti, molti ristori e prima o poi passerà.
Al direttore - Correva l’anno 2000 quando l’allora Pontificio consiglio per la famiglia pubblicò il documento “Famiglia, società e unioni di fatto” che, letto ora, dà la misura di quanto in soli due decenni, ma con una decisa accelerazione in questi ultimi anni, la chiesa abbia progressivamente aperto, anzi spalancato le porte all’Anticristo più che a Cristo, come invece auspicava Wojtyla. Per dire, difficilmente oggi capita di leggere sull’argomento paragrafi tipo “Gravità maggiore dell’equiparazione del matrimonio alle relazioni omosessuali” (n. 23), oppure “La società e lo stato devono difendere la famiglia fondata sul matrimonio” (n. 29). Men che meno testi, come questo di Wojtyla tratto da un suo discorso al Tribunale della Rota romana del 21 gennaio 1999, citato appunto nel par. 23: “Si rivela anche quanto sia incongrua la pretesa di attribuire una realtà coniugale all’unione tra persone dello stesso sesso. Vi si oppone, innanzitutto, l’oggettiva impossibilità di far fruttificare il connubio mediante la trasmissione della vita, secondo il progetto inscritto da Dio nella stessa struttura dell’essere umano. E’ di ostacolo, inoltre, l’assenza dei presupposti per quella complementarietà interpersonale che il Creatore ha voluto, tanto sul piano fisico-biologico quanto su quello eminentemente psicologico, tra il maschio e la femmina”. E’ fin troppo facile constatare come in relativamente poco tempo la chiesa abbia abbandonato questa impostazione per arrivare addirittura a sostenere, secondo quanto si è appreso nei giorni scorsi, la necessità di una copertura legale per le unioni samesex, ciò che rappresenta un’oggettiva rottura rispetto al passato. Non solo. Si è anche appreso che una coppia di omosessuali – i quali hanno incidentalmente avuto tre figli tramite la pratica dell’utero in affitto e che più in generale ritengono la madre “un concetto antropologico”, ossia ultimamente un qualcosa di astratto (anche chi ha partorito quei bambini era un “concetto antropologico”?) – tale coppia, dicevamo, è stata incoraggiata ad andare tranquillamente in parrocchia affinché quei bambini possano ricevere un’educazione cattolica. Che poi i due, come è lecito supporre, continueranno a vivere anche fisicamente la loro unione, questo per la chiesa della caritas sine veritate sembra evidentemente non costituire alcun problema per i fini educativi che si sono dati. Ma, si dice, i tempi cambiano. E la chiesa deve stare al passo con i tempi. Vero. Ma non siamo sicuri che lo “stare al passo con i tempi” debba necessariamente tradursi nella semplice “presa d’atto”, sospendendo cioè ogni giudizio sulla storia come se il cambiamento in sé fosse un fatto positivo (e per come sono andate le cose solo nell’ultimo mezzo secolo direi che ce n’è abbastanza di che discutere). Tra il rendere più accattivante il “look&feel” del cristianesimo con una mano di storicismo, e il fare del Vangelo un qualcosa a misura d’uomo il passo è breve. Oggi la chiesa, come Aronne, dice al mondo ciò che il mondo vuole sentirsi dire anche a costo di dire ciò che non piace a Dio. Torni piuttosto, come Mosè, a dire al mondo ciò che piace a Dio anche se ciò che dice non piace al mondo.
Luca Del Pozzo