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Pandemia, perdite di tempo, ritardi: avere la faccia come il Truce

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Meglio un ristoro oggi che un buffone domani.
Giuseppe De Filippi 

 

A proposito di buffoni. Salvini fino a qualche giorno fa: “Non ci sarà una seconda ondata, inutile terrorizzare le persone”. “Se uno mi allunga la mano, mi autodenuncio, gli do la mano. Tanto un processo più, un processo meno. I bollettini di contagio sono terrorismo mediatico”. Salvini oggi in tv a ogni ora del giorno: “In questi mesi l’Italia ha perso tempo”. Quando si dice avere la faccia come il Truce.


 

Al direttore - Non mi ritrovo molto nella ricostruzione fornita qui ieri da Daniele Menozzi riguardo l’ormai famosa frase del Papa sulle unioni civili same sex. E’ vero che si tratta di una posizione già sostenuta da Bergoglio nel 2010 in Argentina per evitare che fosse approvato il matrimonio omosessuale; come pure che si tratta di una posizione ascrivibile alla plurisecolare dottrina del “male minore”, secondo cui le unioni civili sarebbero, appunto, un male minore rispetto all’equiparazione tout court con il matrimonio. Tuttavia non risulta di immediata comprensione come e perché “la mancata tutela giuridica di coloro che vivono un’unione omosessuale non consente un’adeguata garanzia della dignità della persona umana”. Come se in assenza di una tutela giuridica della coppia verrebbe compromessa la dignità umana delle singole persone. Menozzi nota poi che pur essendo la succitata posizione teologicamente non nuova, ciò non significa “che non sia mutato nulla”. Mentre prima la Cei, in particolare, lavorava affinché sulla base della nota direttiva della Congregazione per la Dottrina della fede del 2003, le leggi positive rispecchiassero il più fedelmente possibile la legge naturale, ora “il Papa non ritiene più necessario, e nemmeno opportuno, che le legislazioni civili, alla luce delle concrete situazioni della società contemporanea, ne siano una meccanica applicazione”. Il che, dice Menozzi, non è poco. Resta però un problema, ossia il fatto che tale cambiamento è avvenuto tramite un’intervista che, lo sottolinea egli stesso, è lecito dubitare possa bastare per superare una posizione, come quella del 2003 della succitata congregazione, espressa in un atto che ha “una precisa qualificazione teologica”. Ed è qui che il discorso si fa intrigante. Menozzi dice infatti che per “cogliere il significato effettivo dell’intervista ci può allora aiutare la storia”. Come? Allacciate le cinture e tenetevi forte: “Da circa un secolo e mezzo i papi ricorrono alle interviste giornalistiche per sensibilizzare l’opinione pubblica su questioni d’attualità”. Affermazione sicuramente calzante se uno pensa a Francesco, che effettivamente di interviste ne ha fatte tante; ma che risulta, come dire, un pelo ardita guardando ai suoi predecessori (compresi Wojtyla e Ratzinger che hanno fatto libri-intervista e sicuramente non per sensibilizzare chicchessia). Potrebbe invece avere ragione Menozzi quando dice che Francesco, prima di procedere anche formalmente a cambiare in senso aperturista la posizione della chiesa, cerca di avere il maggior consenso possibile dentro e fuori la chiesa; ma a parte il fatto che è tutto da dimostrare se l’obiettivo sarà raggiunto, resta la domanda se seguire e assecondare gli umori del popolo, ancorché di Dio, come si fa in politica, sia il modo migliore per governare la chiesa.
Luca Del Pozzo



Al direttore - In questi giorni di ripresa di intensità della pandemia, si avverte una chiara slegatura dell’ordine economico da quello sociale. Se mancano sistemi di intelligenza collettiva o sono carenti all’interno di un paese, ne deriva la perdita di identità e di competitività nel lungo termine nello scenario internazionale. La pandemia ha avuto effetti diversi sulle singole economie in funzione della prevalenza e dimensione di alcuni settori più esposti come nel nostro caso, ad esempio il turismo. Un fattore meno visibile che sta invece incidendo sulla capacità di risposta alla pandemia e sulla ripresa economica è dato dal diverso equilibrio nei sistemi sociali tra benessere individuale e benessere collettivo. La risposta dell’Europa c’è stata con il Next Generation EU e contiene potenziali nuovi valori comuni. Ma qual è il ruolo delle aziende in questo scenario? Nella società stiamo assistendo alla più grande deviazione di significato del valore attribuito alle merci degli ultimi decenni, con la domanda di alcuni beni e servizi che si è sgretolata di fronte a modelli di acquisto diventati vuoti di senso. Non sarà però meno importante avere uno stato più snello e interconnesso e in grado di fornire servizi utili ai cittadini. Anzi, questo diventa un fattore di credibilità e una precondizione per ritrovare un clima di fiducia, a partire dai giovani e dalle donne, e per agire sulle tensioni che si genereranno sui fronti occupazionali e dell’inclusione educativa e sociale.  In risposta a questi scenari, nell’EY wavespace di Roma stiamo sperimentando, insieme ad aziende, università e istituzioni, metodologie che consentono di attivare un sistema di intelligenza collettiva utile per riprogettare la scuola, la Pubblica amministrazione, le imprese e i sistemi sociali. I modelli attingono alla psicologia comportamentale e del lavoro, alle neuroscienze sociali e all’intelligenza artificiale. Sono schemi nuovi e antichi perché hanno radici fondamentalmente umane e culturali. In prospettiva futura, diventa fondamentale attivare un nuovo ruolo dello stato e misurarne l’azione come capacità di ricucire lo strappo tra economia e società. In questo senso il cerchio si chiude e si può rievocare la mano invisibile di Smith, che aveva però ben visibile un’idea di stato e di modello sociale a cui ispirarsi.
Donato Ferri, Med Consulting Leader di EY

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