Elogio della scialberia. Dare ai sondaggisti ciò che è dei sondaggisti
Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 7 novembre 2020
Al direttore - A prescindere dall’esito finale ormai scontato e dal fatto che il principale contraccolpo della mancata riconferma di Trump è che non avremo più Melania come first lady (e scusate se è poco), un dato piuttosto evidente che queste elezioni hanno confermato oltre ogni misura è, da un lato, la totale inutilità e inattendibilità dei sondaggi (e però ogni volta daje a sondaggiare); dall’altro, e soprattutto, il fatto che nei confronti di Trump l’intero o quasi sistema dei media mondiali e annessi sedicenti opinion leader/maker hanno fornito l’ennesima prova della sua smaccata devozione – non priva di quell’aura di indigeribile supponenza tipica di certo establishment – a Hegel e alla loro celebre massima: “Se i fatti smentiscono le idee tanto peggio per i fatti”. Ma tant’è. Four more tears.
Luca Del Pozzo
Scusi caro Del Pozzo ma non è vero. I sondaggisti, stavolta, avevano azzeccato tutto quello che si doveva azzeccare (tranne la percentuale di scarto in qualche stato, come il Wisconsin ad esempio). Avevano azzeccato che avrebbe vinto Biden. Avevano azzeccato che ci sarebbe voluto tempo prima di arrivare a un risultato finale. Avevano azzeccato che i voti per posta sarebbero stati decisivi. E avevano persino azzeccato il fatto che in tre stati in cui Trump vinse nel 2016, Arizona, Wisconsin e Pennsylvania, Biden avrebbe avuto buone possibilità di vittoria (si pensava che questo sarebbe accaduto anche in Florida, e lì i sondaggi hanno toppato). Vero: nessuno aveva previsto che Trump avrebbe preso tutti questi voti, ma nessuno aveva previsto un’affluenza così alta con una pandemia in corso. Ce ne fossero di sondaggi così fallimentari.
Al direttore - In riferimento all’articolo pubblicato dal Foglio in data 6.11.2020 dal titolo “Marcello, Virginia e Walter: la commedia dei tre sindaci” firmato Simone Canettieri, si precisa quanto segue: nell’articolo c’è la frase: “La prima è quella di Marcello De Vito. Il quasi ex grillino arrestato per corruzione nell’inchiesta sullo stadio della Roma a Tor di Valle (già ippodromo di solenni mandrakate, ovvio), ma ora libero di presiedere l’Assemblea capitolina. Candidato sconfitto nel 2013 e sindaco mancato nel 2016 (vittima di un raggiro interno, stile Manzotin), Marcellone ha avuto l’onore di aspettare il feretro di Proietti in piazza del Campidoglio. Era la carica istituzionale più alta in grado, disponibile in città. Con la fascia tricolore al petto, De Vito si è goduto, in diretta tv, il momento di visibilità più lucente di questa scalcagnata amministrazione. S’è ariconsolato co’ l’ajetto, come avrebbe chiosato il sor maestro”. Il commento appare fuori contesto, inconferente e denigratorio della persona di Marcello De Vito (il quale si riserva di intraprendere azioni legali) e dell’intera solennità con la quale si è voluto rendere omaggio alla memoria di un grande attore e di un grande uomo, accomunato – dall’articolo in questione – a vicende giudiziarie di altri, peraltro ancora pendenti e oggetto di censura della Cassazione (ovviamente non menzionata). Si prega quindi di procedere a rettifica secondo la normativa vigente, riservando stesso spazio e veste grafica dell’articolo in questione.
Marcello De Vito
Rettifica ricevuta. Non si capisce però, secondo la grammatica vigente, cosa voglia rettificare. Un caro saluto.
Al direttore - Il nome Trump deriva dall'italiano “Trionfo”, un gioco di carte antenato della briscola, popolare in Emilia già all'inizio del Cinquecento. Infatti, in inglese come sostantivo significa proprio briscola, mentre come verbo significa (in senso figurato) battere o surclassare qualcuno. In verità, in Gran Bretagna significa anche “aria intestinale”, e viene spesso usato in frasi irripetibili. Vengo al punto. Nomen omen, il nome è un presagio, recita una famosa locuzione latina. Quello del pittoresco tycoon newyorchese sembra smentirla. Si credeva un asso di cuori, e invece è solo un due di picche. Pensava di essere un invincibile leader carismatico, e di fronte alla sconfitta reagisce come un bambino disperato a cui hanno strappato il bambolotto. In un saggio del 1917 apparso sulla rivista viennese Imago con il titolo “Una difficoltà della psicoanalisi”, Freud ritornò sul mito di Narciso (di cui esistono due versioni, quella ellenica e quella romana di Ovidio), il giovane superbo e vanitoso che si innamora di se stesso contemplando la propria immagine riflessa nell’acqua. Se ne era occupato a lungo negli anni precedenti, esaminando il rapporto tra nevrosi e mondo magico, e accostando quest’ultimo al mondo dell’infanzia, nel quale si crede che la realtà possa essere cambiata – proprio come nei riti magici – solo con le parole. L’attuale inquilino della Casa Bianca vuole cambiarla con gli avvocati e picconando la più grande democrazia del mondo. Beninteso, il trumpismo è l’espressione di umori e interessi profondamente radicati nella società yankee, nessuno può negarlo. Ma è un fenomeno che non va nemmeno sopravvalutato. In fondo, è bastato un avversario dal profilo politico scialbo per voltare pagina dopo uno dei quadrienni più bui della storia americana.
Michele Magno
Al direttore - Sul Foglio del 4 novembre, Luciano Capone e Carlo Stagnaro hanno analizzato l’impatto distributivo del “bonus bici”, disegnato – scrivono – su misura delle borghesie urbane e che non solo penalizza de facto, ma addirittura lascia a piedi de jure i residenti nelle aree interne e nei piccoli comuni. Il provvedimento ha una finalità ambientale …”. Poiché sono citato tra i sostenitori della misura vorrei chiarire alcuni elementi che gli autori non considerano, senza per questo voler difendere l’impianto normativo e, soprattutto, la sua attuazione, vista anche la pessima performance della piattaforma su cui si richiede il bonus. Gli autori partono dall’assunto che il bonus sia stato voluto per motivi ambientali. Semplicemente, non è così, anche se il positivo effetto sull’ambiente è evidente. Non a caso, il bonus è stato previsto dal decreto legge “Rilancio” del 19 maggio 2020 n. 34, contenente “Misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, nonché di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19”. E non a caso il medesimo decreto legge ha reso più agevole l’istituzione di nuove piste ciclabili e ha ridotto da 300 a 100 dipendenti la soglia oltre la quale aziende e istituzioni localizzate in un capoluogo di regione, in una città metropolitana, in un capoluogo di provincia o comunque in un Comune con popolazione superiore a 50 mila abitanti, sono obbligate a redigere il piano spostamenti casa-lavoro dei dipendenti e nominare il mobility manager aziendale.
Se si leggono in modo integrato i tre interventi – in linea con i suggerimenti che fornimmo nel corso dei lavori del Comitato Colao sulla base del dialogo con assessori alla Mobilità – si capisce che il principale obiettivo era quello di incentivare nel breve termine l’uso di forme di mobilità individuale più “sicure” dal punto di vista epidemiologico e meno inquinanti e ridurre così l’uso sia di automobili sia di mezzi pubblici che, come abbiamo visto nelle settimane scorse, sono un luogo “pericoloso” per la trasmissione del virus. Parallelamente, poiché si immaginava che l’uso dello smart working sarebbe continuato anche una volta superata l’emergenza pandemica, si è voluta dare ai comuni l’opportunità per “programmare” meglio, insieme alle imprese e alle istituzioni di medie-grandi dimensioni, la mobilità, soprattutto cittadina. Detto questo, è evidente che il bonus è insufficiente sul piano quantitativo e spero che il governo pensi a come rinnovarlo, magari riducendo le asimmetrie di cui parlano gli autori e inserendo questo intervento in un’ottica sistemica e di ripensamento delle politiche urbane, delle aree interne e dei trasporti in generale. Dobbiamo però anche dirci chiaramente che 80 mila morti premature all’anno legate all’inquinamento, concentrate nelle regioni del nord, sono altrettanto inaccettabili, anche sul piano distributivo, perché anche in questo caso sono i più poveri a pagare il prezzo più alto. I fondi europei rappresentano un’opportunità da non perdere, ma in questa direzione andrebbero anche riorientati i 19 miliardi di incentivi a imprese e famiglie per attività dannose per l’ambiente. O no?
Enrico Giovannini
Portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS)