Caro Sassoli, meglio cancellare i tweet che cancellare il debito
Le lettere al direttore Claudio Cerasa del primo dicembre 2020
Al direttore - Cioè noi riformiamo il Mes e a sciare ci vanno gli austriaci?.
Giuseppe De Filippi
Al direttore - Con la vittoria di Joe Biden, la nuova leadership di Keir Starmer nel Labour Party e quella di Olaf Scholz nell’Spd, per il riformismo occidentale si aprono orizzonti più promettenti? Nicola Zingaretti ne è convinto (e, si parva licet, anche chi scrive). Beninteso, deve ancora chiarire se considera il suo attuale alleato di governo, che definì il presidente Obama un “golpista”, un compagno di strada meritevole di farne parte. Senza dimenticare, inoltre, che il termine riformismo ha un’origine storica precisa. Viene introdotto in Inghilterra, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, nel corso della campagna per l’allargamento del suffragio universale culminata nel “Great reform bill” del 1832, che ampliava l’accesso al voto dei ceti borghesi. La sua nascita, dunque, è legata alla storia della democrazia rappresentativa. Verrà poi usato in contrapposizione al massimalismo rivoluzionario, per designare le politiche di welfare state delle socialdemocrazie europee. La prospettiva di un’economia pianificata e di una società senza classi cede quindi il passo a una concezione secondo cui il capitalismo non va abbattuto, ma “civilizzato” attraverso correzioni graduali delle sue storture e delle sue disuguaglianze. In questo senso Eduard Bernstein diceva che “il movimento è tutto e il fine è nulla”. Ora, nel vocabolario della sinistra italiana il termine riformismo è uno dei più inflazionati e polisemici. Con la fine dei vecchi simboli e delle vecchie appartenenze di quel che fu il movimento operaio, non sono mancati i tentativi di aggiornarne il significato facendo i conti con le nuove sfide di un mondo in cui tutto era rimesso in discussione: equilibri planetari, sovranità statali, blocchi sociali, modelli di sviluppo, modi di formazione della coscienza individuale e collettiva. Il Pd è stato creato proprio con l’ambizione di unificare la tradizione socialista, in tutte le sue famiglie; quella laico-democratica e quella cattolico-popolare. Ma, alla prova dei fatti, “l’amalgama è mal riuscito” (copyright di Massimo D’Alema). E ancora oggi si presenta come un involucro dove coesistono molte cianfrusaglie retoriche di cui i suoi fondatori non si sono mai liberati fino in fondo mediante severi bilanci critici. Del resto, una forza riformista si distingue per le sue idee, la sua capacità di proposta, il costume dei suoi gruppi dirigenti, e non perché considera i programmi alla stregua della promozione pubblicitaria di un prodotto, a cui non si chiede tanto di essere credibile, ma gradevole. In altre parole, un partito non può vivere senza princìpi e senza una cultura politica trasparente che orienti le sue grandi scelte. Forse così può anche tirare a campare, ma si espone inevitabilmente al rischio dell’opportunismo più disinvolto: per cui si può scoprire, in base alle convenienze del momento, favorevole o contrario al bicameralismo perfetto, proporzionalista o maggioritario, ecologista o industrialista, federalista o centralista, liberista o statalista, garantista o giustizialista. Il dovere del riformismo è quello di fare le riforme, non di stare a Palazzo Chigi a prescindere, come direbbe Totò. Altrimenti esso indica un semplice recapito, un nome che tutt’al più richiama l’albero genealogico: racconta da dove si viene, non dove si vuole andare. Questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, diventa rassegnazione allo stato di cose esistente spacciata per realpolitik.
Michele Magno
Al direttore - Ha ragione il Foglio nel sostenere la irrealizzabilità della cancellazione del debito da parte della Bce. Qualcuno ha sostenuto, a proposito del contrasto frontale di una tale operazione con l’art. 123 del trattato Ue che vieta il finanziamento monetario degli stati da parte della Banca centrale e dell’Eurosistema, che i trattati si possono modificare, come se fosse facile – posto, ma non concesso che l’operazione sia valida, il che è tutto da dimostrare – riformare l’ordinamento della Bce nella parte indicata, stante la sicura opposizione della Germania, con la sua Corte costituzionale già contraria alle operazioni monetarie non convenzionali, e dei suoi “satelliti”. Per di più, questa posizione allontana altre, forse più realistiche, ipotesi di mutualizzazione parziale del debito sulla scia di quella, che in parte tale è, operata con il Recovery fund (sempreché venga integralmente attuato). Ma sul “che fare” tarda una definitiva, formale posizione del governo – a cominciare dal premier – che pare trovare piuttosto comodo mantenere nell’indeterminatezza la linea soprattutto sul Mes ma anche sul Recovery fund e sulla cancellazione del debito. “Quousque tandem”?
Angelo De Mattia
Ieri il presidente del Parlamento europeo, il solitamente impeccabile David Sassoli, ha dichiarato su questo punto che “sul tema del debito per le spese del Covid io ho detto che è un’ipotesi interessante, non ho parlato di cancellazione”. Fa piacere che il presidente Sassoli ci abbia ripensato, nonostante quanto scritto da lui stesso su Twitter il 15 novembre (“L’#Europa cancelli i debiti dei governi dovuti alla #pandemia, non è accettabile che ricadano sui cittadini e sulle generazioni future. Si abbia la capacità di scelte forti, coraggiose. Gli #Eurobond diventino permanenti, si elimini il diritto di veto!”). Ma il Sassoli che propone di cancellare i suoi tweet è mille volte preferibile a quello che, come un grillino qualsiasi, propone di cancellare il nostro debito.