Il Mose (che funziona) e il vaccino: il giusto spirito per la ricostruzione
Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 3 novembre 2020
Al direttore - Non è straordinario che un evento eccezionale come quello del Mose sia diventato ormai un evento ordinario? Mi auguro che possa essere così tra qualche mese anche con i vaccini: ciò che sembrava straordinario diventa ordinario. Un sogno.
Laura Martini
Le nuove immagini del Mose – che sollevandosi ieri mattina alle 10.45, a Venezia, ha permesso alla città di rimanere asciutta, nonostante i 120 centimetri di acqua alta – sono immagini che trasmettono allegria ma che indicano anche una direzione possibile per il futuro del paese, magnificamente sintetizzata giorni fa su questo giornale dal nostro amico Umberto Minopoli: il primato del fare sulla burocrazia, della tecnica sulla filosofia, dell’opera e del lavoro sul virus del nimby. La ricostruzione dell’Italia, nel dopo Covid, avrà bisogno, oltre che di un vaccino, anche di questo spirito.
Al direttore - Non capisco l’innamoramento dell’amico Renato nei confronti del giovane Di Maio. Ma ai sentimenti, si sa, non si comanda. Soprattutto non riesco a condividere i 10 punti enunciati dal ministro degli Esteri, in primis per ciò che manca. E incredibilmente, per il ruolo che riveste, la “svolta” di Di Maio dimentica proprio la politica estera, il ruolo dell’Italia nei contesti internazionali, nel Mediterraneo, in Europa. E ancora le infrastrutture, da quelle tradizionali, con la messa in sicurezza della rete stradale, autostradale e ferroviaria e il completamento delle direttrici previste; l’aggiornamento dell’alta velocità, con la connessione ai corridoi internazionali; la realizzazione delle piattaforme logistiche intermodali; e ancora la realizzazione di tutte le opere necessarie alla trasformazione dei rifiuti per sviluppare quell’economia circolare essenziale per la sostenibilità; e infine l’implementazione delle Smart grid con le nuove tecnologie, a partire dal V2G, per consentire realmente la diffusione della mobilità elettrica e la transizione energetica. Interi capitoli di obiettivi di sviluppo derubricati a una funzione “trasversale” che però sembra concretizzarsi solo nella rete digitale. La digitalizzazione, leggendo il decalogo di Di Maio, sembra la soluzione a tutti i problemi. Una soluzione che però affronta da un unico punto di vista, di per sé inefficace. Erogare i servizi della Pa in digitale non vuole dire semplificare le procedure autorizzative e determinare una reale sburocratizzazione dei processi. Inoltre si dimentica tutta l’altra faccia della transizione digitale: la formazione. Secondo il Desi, Digital Economy and Society Index 2020, solo il 42 per cento degli italiani tra i 16 e i 74 anni possiede almeno competenze digitali di base, contro una media Ue del 58 per cento, e un dato tedesco del 70 per cento. Ignorare ciò vuol dire escludere quasi il 60 per cento della popolazione da gran parte dei servizi. Un fenomeno che si sta già verificando in parte anche nei servizi forniti da privati. Le digital skill non sono l’unico vulnus del nostro sistema scolastico. Nel complesso vige una totale discrepanza fra quelle che sono le competenze fornite e quelle che invece sono richieste dal mondo del lavoro. Non è sufficiente, come proposto da Di Maio, puntare solo sugli Its. Il gap vale a tutti i livelli del percorso formativo e della ricerca. Creare una connessione continua fra i due mondi consentirebbe inoltre di attivare gli investimenti dei privati nel sistema e rendere i nostri studenti più competitivi anche nei mercati internazionali. Trasformare un paese vuol dire anche rendersi conto dell’interazione fra tutti i settori. Questo consente di prevenire conseguenze involontarie ma anche di affrontare i problemi con tutti gli strumenti possibili. E’ il caso del calo demografico e della ridotta natalità nel nostro paese. Un tema che viene affrontato spesso con misure spot come assegni per i figli, sgravi fiscali, come se la scelta di mettere al mondo un bambino dipendesse dal costo dei pannolini. O ancora, come propone Di Maio, con misure per tentare di rendere sostenibile il sistema previdenziale. Quest’ultima è sicuramente la prima emergenza da fronteggiare, ma fino a quando non si interverrà radicalmente sul sistema sociale non si porranno mai le basi per risolvere il problema. E per farlo bisogna intervenire sulla scuola. Sì, esatto, per contrastare la bassa natalità del nostro paese bisogna partire dalla scuola. Riorganizzando il sistema formativo nel suo complesso e a tutti i livelli in senso “capacitante”, disegnando cioè un sistema che fornisca gli strumenti non solo per entrare nel mondo del lavoro, ma anche per rendersi autosufficienti in netto anticipo rispetto alla media attuale. Abbiamo pochi laureati, il 19,6 per cento contro il 33,2 per cento della media Ue, e si laureano tardi, e, ancora, avranno una lunga gavetta davanti prima di poter affermare una stabilità economica. La maggior parte di loro solo in quel momento tenderà a metter su famiglia. L’indipendenza economica è un principio fondamentale che consentirebbe più di tanti altri slogan il raggiungimento della parità di genere e che prevede certamente un contestuale ripensamento del mondo del lavoro. Ma senza considerarlo come una sorta di casellario da svuotare di pensionati per introdurvi neoassunti. Il lavoro crea lavoro, e soprattutto le competenze creano lavoro. Uno degli errori fondamentali delle politiche del lavoro è quello di congelare la fotografia dell’attuale nell’illusione di garantire i livelli occupazionali. Con il solo risultato di creare i due universi paralleli emersi in maniera agghiacciante durante la crisi: i garantiti e i non garantiti. Ed è su questo punto che si deve lavorare per rivedere il sistema, renderlo più accessibile, vitale e flessibile. Essere dei leader, in particolare in un momento di transizione come quello che necessariamente stiamo vivendo, vuol dire anche essere dei visionari. Costruire un’idea di futuro diversa, non semplicemente declinare un menù di priorità che fanno parte del lessico politico da tanti anni da essere ormai in taluni casi superate dagli eventi. La pandemia è un evento epocale. Comprendere questo è il primo passo. Rendere questa svolta un’occasione è la grande sfida.
Paolo Romani
senatore del Gruppo misto