Zinga e il Pd, la linea è importante ma i risultati lo sono di più

Le lettere del 6 marzo al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Il Trojan non era spento ma funzionante... solo che non si trova il file dell’intercettazione tra Pignatone e Palamara. Sparito, dovrebbero aprire un fascicolo per sottrazione di atti giudiziari. Chi lo apre? Chi controlla i controllori? A Genova dove non si trova più il fascicolo su via Fracchia, il procuratore ha aperto un’indagine per capire chi è stato. Non sapremo mai, ovvio. Sarà stato a Genova come a Perugia qualche fedele servitore dello stato, dello stato che non può processare se stesso.
Frank Cimini


 

Al direttore - Nicola Zingaretti non è stato certamente tra i protagonisti dell’operazione Draghi. Se ne è accorto quasi a cose fatte, mentre la sua linea era ancora: “O il TrisConte o elezioni anticipate per colpa di Renzi”. Invece di salire sul carro dei vincitori scusandosi per essersi distratto un momento e non avercela fatta ad arrivare tra i primi, rischia di creare, con la sua crisi di nervi, un problema in più nel difficile cammino del governo.
Giuliano Cazzola

 

Tutto vero. Zingaretti ha portato spesso avanti una linea che non era sua e non sono state poche le occasioni in cui ha trasformato in revocabili le sue richieste irrevocabili (via la sede dal Pd in centro, sì alla sede del Pd in centro; mai un governo con il M5s, sì a un governo con il M5s; mai un governo con Conte, sì a un governo con Conte; mai un governo senza Conte, sì a un governo senza Conte). Ma quando si giudica una leadership non basta concentrarsi sulla linea del leader. Occorre anche giudicare i risultati. E la domanda che meriterebbe di essere fatta anche da chi non ama Zingaretti è: quanto è stato importante il Pd per portare l’Italia dalla situazione in cui si trovava tre anni fa a quella in cui si trova oggi? La risposta è una: non poco. La linea è importate, ma i risultati a volte lo sono ancora di più.



Al direttore - E’ giusto sostenere che risolvere il caso Montepaschi sarà un test importante “anche per delineare il risiko di Draghi”, come scrive Stefano Cingolani sul Foglio del 5 marzo. Draghi ha una “bella grana eredita dal passato”, sostiene Cingolani con delicatezza, forse con lip-service, preferendo, evidentemente, non scrivere che la grana nasce dalla sciagurata operazione dell’acquisto di Antonveneta, la madre di tutto quel che di negativo è accaduto dopo, autorizzata dalla Vigilanza italiana quando Draghi era Governatore della Banca d’Italia. Dunque, vi è una ragione in più – e che ragione – per arrivare a una positiva soluzione della vicenda Montepaschi che, imboccata la strada di un’aggregazione, dopo avere forse troppo rapidamente abbandonato l’opzione “stand alone”, salvaguardi almeno gli aspetti, ovviamente non tutti, che meritano di essere tutelati riguardanti le peculiarità delle tradizioni del Monte, il suo insediamento e l’apporto del personale. Giustamente viene detto che l’Istituto deve essere salvato anche perché, se invece dovesse saltare, si scatenerebbe un terremoto. Le conseguenze negative avrebbero anche un carattere sistemico. Ciò vale pure i formalismi di Bruxelles, ancor più insostenibili dopo i gravissimi danni provocati dalla Commissione Ue per il caso Tercas, con tutte le conseguenze, danni che si possono far discendere dalla sonora bocciatura, dopo quella di primo grado, da parte della Corte di giustizia europea del divieto a suo tempo imposto da Bruxelles all’intervento del Fondo di tutela dei depositi per il salvataggio della predetta banca.
Con i più cordiali saluti.
Angelo De Mattia

 

Su Mps, caro De Mattia, il punto non mi sembra essere quello che dice lei, ovvero sia che Draghi deve farsi perdonare per qualcosa di imperdonabile fatto nel passato (Bankitalia, come sa meglio di me, all’epoca, come emerge dagli atti della Commissione di inchiesta del 2018, scelse di sorvolare sul fatto che non fosse stata approntata una due diligence non per dolo ma perché si accontentò del piano di rafforzamento patrimoniale presentato dalla banca per provare a far nascere, dopo la fusione tra Unicredit e Capitalia e Intesa San Paolo, un terzo polo nazionale del credito). Il punto mi sembra essere diverso e se mi consente è anche più ambizioso: dimostrare che lo stato imprenditore non è solo quello che salva dalle conseguenze dei fallimenti di mercato ma è anche quello che rilancia e che permette a chi è stato salvato di tornare a competere sul mercato. La vera sfida è questa: provare finalmente a pensare al futuro, non continuare a rincorrere maliziosamente fantasmi del passato.