lettere
Il sindacato come scuola di responsabilità. E un ricordo di Miglio
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Dunque Palamara si fa un partito. Lo chiamerà, forse, Csm (centro sinistra moderato).
Gino Roca
Al direttore - Caro Cerasa, lei che è uomo di mondo, mi aiuti a togliermi un dubbio che mi assilla da quando è scoppiato il pollaio sulla consulenza di Renato Farina: ma se l’agente Betulla avesse collaborato con la Stasi o meglio ancora con il Kgb oggi non sarebbe considerato un benemerito?
Giuliano Cazzola
Al direttore - In una intervista a Repubblica del 9 agosto, Landini Maurizio, segretario generale della Cgil, ci informa che lui è favorevole al green pass, però sulla sua obbligatorietà nelle mense aziendali aspetta una legge del governo. Opinione rispettabilissima anche se suona come un’abdicazione al ruolo dei sindacati.
Valerio Gironi
Ha ragione Carlo Calenda quando dice che “non sanzionare chi non si vaccina equivale a sanzionare chi si è vaccinato”, e quando ricorda che questa sanzione “va dai maggiori costi per il Ssn e il rischio di nuove chiusure, fino alla nascita di nuove varianti favorite dalla maggiore circolazione del virus”. Ha ragione Carlo Calenda e ha ragione anche Marco Bentivogli quando dice che così facendo “si sanzionano tutti coloro che sanno che ci sono diritti e doveri nei confronti degli altri” e quando ricorda che “il sindacato non può non essere scuola di responsabilità: perché quando si discrimina chi rispetta le regole per inseguire pochi urlanti salta tutto”. Caro Landini, ci ripensi, è importante: i lavoratori non si proteggono alimentando l’irresponsabilità.
Al direttore - Oggi sono passati 20 anni da quel triste 10 agosto del 2001 quando mi chiamarono per dirmi che era morto il Professore. 20 anni nei quali in pochi hanno voluto portare avanti un pensiero che “avanti” lo era già da un pezzo. L’attualità dell’insegnamento di Gianfranco Miglio lo rende immortale, ma i mortali attualmente in circolazione tendono a ignorarne i contenuti. E devo andare ancora più in là nel tempo per risalire a quando venni folgorato dalla sua figura. Correva l’anno 1994 e io ero un giovane sindaco iscritto alla Lega Nord. Quell’anno si celebrò un congresso del partito nella rossa Bologna. All’epoca i sindaci del Carroccio erano pochi e io ero il più giovane di tutti, invitato a un congresso di partito. Appena arrivai venni travolto dalla forza di quel luogo e dai suoi protagonisti: ovviamente Bossi, ma non solo lui, in molti entrarono nella mia testa con modalità quasi ipnotiche. Si avvertiva la forza di un movimento che aveva grandi idee e l’apoteosi quel giorno fu raggiunta dal Professore che iniziò il suo intervento scandendo lentamente alcuni concetti chiave che avrebbero finito coll’imprimersi indelebilmente nella mia mente e nel mio pensiero: “Il grado di civiltà politica di un paese dipende dal modo con cui si riesce a limitare la quantità e la presenza dei parassiti. I parassiti sono nella società così come sono sugli animali. Se i parassiti crescono al di là di un certo limite l’animale muore e muore una società. Il parassita è colui che non produce ricchezza ma vive consumando quella prodotta dagli altri. Centralismo e parassitismo sono due fenomeni strettamente collegati fra loro. Il paese che siamo chiamati a cercare di cambiare è ammalato da un esercito di pidocchi”. Mi vengono ancora i brividi… e mi assale una tristezza devastante se penso che a quasi trent’anni da quel giorno siamo ancora lì. Potrei proseguire riportando per intero i contenuti di quello che divenne da lì a breve un vero e proprio testamento politico che negli anni ha alimentato il pensiero di diverse generazioni di persone nella Lega Nord, ma non solo. Fu talmente potente e così lucido in quell’occasione da impaurire davvero tanto il sistema quanto Bossi, che dimostrando una debolezza molto umana cominciò da allora a temere di essere oscurato all’interno da quel grande pensatore. I due, si sa, non si erano mai amati fino in fondo. Due personalità troppo forti che difficilmente avrebbero potuto continuare a convivere nello stesso alveo (forse troppo stretto per entrambi) e cosa successe dopo è cosa nota. Ma anche nel periodo della Lega bossiana post Miglio si può dire che in diversi cercarono di tenerne in debita considerazione l’insegnamento come base di pensiero. Tutti tranne i soliti scendiletto di turno che alternativamente negli anni successivi si scagliarono di volta in volta contro i non allineati al pensiero unico bossiano, con le stesse modalità con le quali oggi vengono maltrattati i non allineati al pensiero salviniano (e in alcuni casi sono addirittura gli stessi personaggi). Però quello era pensiero. C’era un dibattito politico vero all’interno della Lega Nord, che Bossi, a seconda del periodo e delle convenienze, alimentava o stroncava sommariamente. Ma c’era! E volendo ci potrebbe essere ancora, perché quel pensiero che stava alla base del ragionamento del professor Miglio è ancora molto attuale. Le libertà individuali, la lotta allo stato, la politica post ideologica che mette al centro i territori e soprattutto (di questi tempi) il rapporto fra il cittadino e lo stato restano il nodo della politica di molti di noi, fino (perché no?) alla autodeterminazione dei popoli o alla secessione quale diritto naturale. Oggi questi pensieri non trovano più casa in alcuno dei partiti del panorama italico ed è proprio la scomparsa di questi argomenti ad aver segnato la vittoria del sistema malato e marcio su chi lo aveva combattuto. Sono sicuro che oggi il Professore ripeterebbe quell’intervento con la stessa forza e la stessa autorevolezza di allora. Ma purtroppo da vent’anni non è più fra noi e chi avrebbe dovuto portare avanti il suo pensiero ha ampiamente dimostrato di non esserne all’altezza. Un saluto necessario a un grande lombardo.
Gianni Fava