La par condicio dei talk-show genera mostri. Come direbbe Michetti…
Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 22 settembre 2021
Al direttore - Matteo Lepore, secondo i sondaggi, sarà eletto sindaco al primo turno. Così potremo capire come riuscirà a “fare di Bologna la città più progressista d’Italia”, come è scritto nel suo programma.
Giuliano Cazzola
Come direbbe Enrico Michetti, caro Cazzola, “imperare sibi maximum imperium est”.
Al direttore - Il direttore de La7, Andrea Salerno, letto sul Foglio di qualche giorno fa, dice che i talk-show televisivi fotografano la politica per quella che è. Non sono particolarmente d’accordo. I talk-show non fotografano la realtà, ritraggono al massimo quel pezzo della realtà che scelgono, direttamente o indirettamente, di mettere davanti al proprio obiettivo. Gli uffici stampa dei partiti possono suggerire un ospite o un altro, ma non è pensabile (né è vero) che le redazioni si limitino a devolvere la propria scaletta alle scelte dei partiti. Se lo fanno, si assumono comunque la responsabilità di dare un megafono a chi siede nei loro studi, posto che purtroppo da noi la regola aurea è che il conduttore, costretto in un ruolo di arbitro, nemmeno davanti all’evidenza dirà che uno dei suoi ospiti ha ragione e l’altro ha torto. Gli elettori non potranno mai formarsi correttamente un’opinione se ogni posizione deve per forza confrontarsi in tempo reale e con la medesima dignità con la posizione contraria, come se l’informazione avesse solo un ruolo notarile rispetto a quello che succede nella realtà. Se discuto in Italia di diritti lgbt devo necessariamente confrontarmi con qualcuno che può dire indisturbato che la mia vita è inferiore in dignità rispetto alla sua. E se discuto di vaccini e di pandemie devo per forza conversare con chi sostiene panzane assolute alle quali viene attribuito il medesimo spazio del dato scientifico. Un po’ come se per completezza del confronto, mi perdoni l’iperbole, si invitasse il Kkk a un dibattito sulla schiavitù. Questa non è una “fotografia”, è una scelta editoriale. Aggiungo che il confronto in tempo reale si traduce nella maggior parte dei casi in un rumore assordante nel quale ha fatalmente la meglio chi ha meno argomenti e quindi maggiore interesse a provocare la rissa. In altri paesi, ai dibattiti partecipano esperti, accademici, opinionisti e testimoni. I politici, invece, sono intervistati uno alla volta (o in rari confronti a due, molto formali) con domande precise e circostanziate, e se possibile anche ficcanti e complesse, proprio perché gli elettori si facciano un’opinione del loro lavoro. Se la politica diventa uno show, andarci può aumentare forse la visibilità o popolarità di chi vi partecipa, certo non contribuisce a migliorare né la qualità del dibattito pubblico né della percezione dei partiti. E questa non è solo una responsabilità della politica, ma anche di chi la racconta.
Ivan Scalfarotto
Come direbbe Enrico Michetti, caro Scalfarotto, “error hesternus sit tibi doctor hodiernus”.
Al direttore - Europeisti a scartamento ridotto, se non addirittura criptosovranisti. Come diversamente dovremmo essere giudicati vista la pervicacia con la quale, nonostante i ripetuti avvertimenti, il governo ha inteso approvare lo schema del decreto di recepimento della direttiva Copyright? Mentre, infatti, la direttiva ha introdotto un diritto connesso sull’utilizzo online delle pubblicazioni giornalistiche che favorisse la libera negoziazione tra le parti, il governo italiano ha pensato bene di elaborare un diritto inedito e autoctono che, sulla scia degli spunti della recente esperienza australiana, introduce un obbligo di equa remunerazione per gli editori, assegnando all’Autorità delle comunicazioni il ruolo di arbitro ai fini della sua determinazione. Peccato che l’Australia non faccia parte dell’Europa e che il suo intervento prescinda dal diritto d’autore. Lo schema governativo è ampiamente divergente dalla direttiva europea, difforme persino dalla legge di delegazione del Parlamento e per di più palesemente anticoncorrenziale. Ebbene sì, perché dietro alla palese ispirazione alla vulgata populista contro le BigTech, si cela la tutela delle pretese protezionistiche dei grandi gruppi editoriali. Ma ora queste vistose aporie hanno ricevuto anche un netto non expedit dell’Antitrust, la cui analisi è tanto impietosa quanto illuminante del ruolo marginale nel quale la concorrenza è relegata nel nostro paese. Interverrà un momento di riflessione, se non di resipiscenza? Quando l’Autorità denuncia un approccio “eccessivamente dirigistico” e un “pervasivo e sovente inefficace” intervento pubblico che penalizza l’innovazione e favorisce discriminazioni concorrenziale, il pensiero infatti si spinge ben oltre il caso di specie. Anche su questo tema, non ci resta che sperare che la lucidità del presidente Draghi riesca a porre rimedio in extremis a una così clamorosa svirgolatura.
Giuseppe Colangelo
professore associato di Diritto dell’economia
Come direbbe Enrico Michetti, caro Colangelo, “absit reverentia vero”.