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Senza il proporzionale il grande centro è un'illusione. Il “sono” che manca a Meloni
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Sono uno degli oltre 200 mila romani che hanno votato Calenda, convinto che non si trattasse affatto di una “testimonianza” ma di un voto positivo sia per l’amministrazione di Roma sia per una più generale prospettiva politica. Per non dispiacere a Giuliano Ferrara mi astengo dal chiamare questa prospettiva “area laico-liberal- riformista”. Ma insisto nel dire che nel deserto della Seconda Repubblica, chi ha votato Calenda a Roma ha espresso una voglia di riformismo liberaldemocratico (incluse le tensioni cattolico-liberali e socialista-democratiche), pragmatico e anti ideologico, oggi essenziale per respingere populismo, giustizialismo e sovranismo. Con uno sguardo all’indietro è difficile negare che l’assenza di correnti politiche di questo tipo spazzate via da Mani pulite ha favorito la lievitazione del cuculo populista che ha trovato il suo nido fecondo tra i post comunisti del Pd e i post democristiani della Lega. I democratici si sono arresi allargando le braccia al grillismo. I leghisti hanno inseguito la protesta antipartitica che al sud ha spopolato. Ma se c’è una speranza che “la politica” riassuma le sue storiche funzioni, quale che ne siano le forme, dovremmo chiedere agli uni (Dem) e anche agli altri (Leg) di lasciar andare la compagnia di Raggi, Di Maio e Grillo al loro destino senza cimentarsi in una respirazione bocca a bocca. Qualsiasi serio analista spiega che l’elettorato grillino non esiste se non come coacervo episodico di tante proteste. Non so se con Calenda “habemus papam” (Foglio, 6/10) perché un leader deve sapere indossare sempre con stile l’abito bianco, cosa che a Roma si è visto solo in una specifica occasione. Certo è però che il disprezzato elettorato “liberaldemocratico” è sempre stato in Italia non solo un riferimento anti degrado, ma anche l’espressione di una consistente porzione del voto, se pur frammentato e internamente litigioso, che ha permesso in combinazione autonoma (e non inglobata) con la sinistra riformista o con la destra conservatrice di guardare al meglio della civiltà occidentale.
Massimo Teodori
Senza proporzionale, caro Teodori, il grande centro è solo un’illusione ottica. E fino a che non ci sarà un proporzionale vero bisogna ragionare con quel che si ha. Cosa che in effetti fa anche Carlo Calenda, che mentre a Roma dice di non voler fare accordi con nessuno dei partiti populisti, al governo si trova alleato non con uno ma con due partiti populisti. Senza pragmatismo non c’è idealismo.
Al direttore - Dopo gli esiti del voto nelle grandi città, Enrico Letta si sarà finalmente accorto che, per il Pd, è una bella risorsa essere il partito dei quartieri con Ztl?
Giuliano Cazzola
Al direttore - Leggo che a Roma il consigliere comunale che ha avuto più voti nel centrodestra si chiama Rachele Mussolini, è nipote di Benito e dice (lo ha detto ieri in una intervista a Repubblica) che “per affrontare l’argomento fascismo dovremmo parlarne fino a domani mattina”. E’ vero: le colpe dei padri non ricadano sui figli. Ma pensa che sia solo una coincidenza che ci sia una Mussolini in Fratelli d’Italia.
Luca Martini
Mi spiace correggerla. Rachele Mussolini non è l’unica Mussolini in Fratelli d’Italia. Nel 2019, Giorgia Meloni candidò alle elezioni europee anche un altro Mussolini, di nome Caio Giulio Cesare, pronipote di Benito, e scelse di costruire la sua campagna elettorale attorno a tre parole chiave: “La storia”, “il futuro”, “l’Italia”. Nulla di male, poteva capitare in fondo a qualsiasi altro partito, ma resta il fatto che la leader di Fratelli d’Italia avrebbe forse una qualche ragione in più, visto il cognome impegnativo con cui ha scelto di apparentarsi, per aggiungere un “sono” alla sua celebre frase: “Sono una donna, sono una madre, sono cristiana, sono antifascista”. Di questi “sono”, all’appello, ne manca ancora uno. Ma certamente arriverà.