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Draghi al Quirinale per smentire Weidmann. Un'idea per Chigi
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Ora che Jens Weidmann si accinge a lasciare la presidenza della Bundesbank, e dunque il direttivo della Bce, si dovrebbe essere più sereni nel valutare il suo operato. Intanto, egli non abbandona per reazione, “ex abrupto”, come in passato hanno fatto Weber e Stark, in particolare. Ma, raggiunti i dieci anni di permanenza in carica, trova naturale la sua uscita, sia o non sia il richiamo di questo termine una ragione esclusiva o concorrente alla decisione. Poi, bisogna riconoscere che egli ha sempre difeso le sue tesi a viso aperto, con coerenza e che, quando è stato in minoranza nel direttivo, non ne ha mai tratto conseguenze traumatiche. Il suo battersi con Mario Draghi (e, poi, con Christine Lagarde) è avvenuto sempre sulla base di rigorose tesi alternative. Moltissimi, a diversi livelli, non le condividono affatto, “quorum ego” per quel che vale, ma ciò non significa precludersi di considerare che molto ha contribuito al non accoglimento di quelle posizioni il contesto politico, a cominciare dal determinante ruolo di Angela Merkel, senza la quale gli esiti dei confronti sarebbero stati, purtroppo, ben diversi. Vi è stata un’ala protettrice della quale non si vuole, però, parlare, come non si cita mai il Consiglio europeo, di cui “magna pars” era la cancelliera, che precedette la storica dichiarazione di Londra di Draghi ed era pienamente favorevole all’acquisto di titoli da parte della Bce. In ogni caso, la dialettica nel direttivo non è stata di certo inutile. Vedremo chi sarà il successore. Intanto, una più bilanciata valutazione dell’operato di Weidmann sarebbe utile a tutti. Con i più cordiali saluti.
Angelo De Mattia
Weidmann, come ha ricordato due giorni fa l’Economist, ha sempre avuto un timore, non del tutto peregrino, e ha sempre sospettato che l’eccessivo attivismo della Bce, riguardo all’acquisto dei titoli di stato, potesse avere conseguenze negative su due fronti: sottovalutare i rischi inflazionistici e allentare la pressione sui paesi indebitati dell’Europa meridionale rispetto al tema delle riforme. Draghi, da capo della Bce, ha tentato di alimentare un meccanismo virtuoso. Da capo del governo oggi e, speriamo, da presidente della Repubblica domani avrà il compito di guidare l’Italia in una fase tutt’altro che facile: dimostrare che Weidmann aveva torto quando sosteneva che una eccessiva generosità della Banca centrale europea avrebbe avuto un effetto negativo sull’efficienza dei paesi maggiormente foraggiati. Ci è riuscito una volta. Speriamo abbia sette anni di tempo per riuscirci una seconda.
Al direttore - Eleggere Mario Draghi al Quirinale significherebbe “metterlo in sicurezza” – grazie a una norma costituzionale – per sette anni senza che venga meno il suo ruolo di indirizzo e di guida della politica del paese. Coloro che insistono perché Draghi resti a Palazzo Chigi per l’intera legislatura e magari anche nella prossima, forse ritengono che sia possibile garantirgli – magari con atto notarile seguìto da un contratto a tempo determinato – che tutto andrà come prevedono; quando basterebbe, invece, uno starnuto del Parlamento per mandare a gambe all’aria un governo e l’esito di una consultazione elettorale per rendere impraticabile un’ulteriore stagione del Cavaliere bianco.
Giuliano Cazzola
Al direttore - Draghi al Quirinale? Bene! Domandona: a Palazzo Chigi?
Valerio Gironi
Una buona domanda che meriterebbe una risposta ponderata, ma sarei troppo Franco se le dicessi un nome.
Al direttore - Caro Cerasa, mi sono convinto della bontà della campagna del Foglio per portare Draghi al Quirinale, per la semplice ragione che, diversamente, come altri hanno già rilevato, dopo le prossime elezioni politiche non avremo Draghi né al Quirinale né a Palazzo Chigi, con tutti i rischi noti per la necessaria stagione riformista che ci attende. Detto questo, rimane il fatto che non si vede chi possa essere il De Gasperi della situazione. La storia non si ripete, ma è ricca di indicazioni: l’accoppiata Einaudi-De Gasperi rappresentò l’architrave del buon utilizzo del Piano Marshall e delle riforme capitali realizzate dai governi centristi (dalle liberalizzazioni, alla riforma agraria, all’infrastrutturazione del Mezzogiorno, per citarne solo alcune) che furono decisive per il successivo miracolo economico. La mia sensazione è che, senza la presenza di un centro politico forte nel futuro Parlamento, il nuovo De Gasperi non emergerà e tutta la buona volontà e i poteri del Quirinale, egregiamente enumerati da Giuliano Ferrara, si scontreranno con ostacoli insuperabili a destra e a sinistra. Pertanto, una legge elettorale proporzionale dovrà essere la logica conseguenza della scelta di Draghi presidente della Repubblica. Letta e Berlusconi lo capiranno?
Bruno Bottiglieri