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Il climate change non ha bisogno di panico ma di adattamento

Le lettere al direttore Claudio Cerasa del 28 ottobre 2021

Al direttore - Come era stato detto e scritto da tempo, il ddl Zan ha esaurito la sua corsa ed è stato solennemente sepolto in Senato.  Non è neppure il caso di riesumare la catena di errori e manovre insincere che hanno costellato la sua breve vita. L’ultimo atto è tutto della stessa pasta: forzare una legge controversa in un Parlamento dove già si agitano le trame per il Colle e si fanno i conti per la propria rielezione, ha indotto molti a cogliere l’occasione per mandare segnali e agitare bandierine, il ddl Zan c’è entrato di striscio. Forse è andata così perché è l’esito migliore per tutti. Meloni e Salvini (con il sostegno di un Berlusconi illuso da promesse quirinalizie) possono vantare il successo di aver bloccato la legge; i sostenitori di non aver ceduto fino alla fine e di aver dimostrato che “sui diritti non si tratta”. Peccato solo per Enrico Letta che in limine mortis una trattativa l’avrebbe pure avviata. Comunque sarà colpa di Renzi. E anche gli osservatori meno partigiani sanno che era una legge concepita male e scritta peggio. Metteva insieme codice penale, diritti, scelte antropologiche, norme sull’educazione e sulla scuola: troppa roba e difforme per stare in bilico sulle spalle del solo Alessandro Zan, per quanto il suo nome, dipinto sui palmi delle mani facesse una gran figura. Ora il problema resta ma andrà affrontato con meno slancio eroico e più coerenza. Ecco, questo forse è l’unico insegnamento che si può trarre da tutta la vicenda: quando si delega l’azione politica agli influencer e agli instagrammer, è facile inebriarsi con il vento del successo, ma alla resa dei conti, sui diritti come su qualsiasi altro fronte, se non si tratta con “l’altra parte” si resta al palo.

Giancarlo Loquenzi

 

Al direttore - Caro Cerasa. Rispetto ai temi legati al climate change, come segnalato dal Foglio nel suo editoriale, credo che l’ottimismo sia doveroso ma vada legato anche a un tema specifico: l’energia. Se guardiamo agli obiettivi del 2030, alla riduzione del 55 per cento delle emissioni europee di CO2, allora non possiamo che entrare nel tema dell’energia. La strada della decarbonizzazione è quella giusta, ma al 2030 dobbiamo arrivarci con imprese competitive. Ecco perché è necessario che sull’energia l’Europa si muova su un fronte comune, con una vera politica energetica condivisa per evitare che ogni paese faccia da sé, scongiurando quello strappo nei prezzi che rischia di creare disparità tra le imprese all’interno della Ue. Senza una visione e un’azione coordinata a livello europeo, non solo sarà difficile raggiungere il target al 2030, ma rischiamo anche di colpire la manifattura europea proprio durante la sua fase di ripresa. L’Italia ha un mix energetico già proiettato al futuro, ma dobbiamo dare tempo alle rinnovabili di crescere. Per questo il gas è la “risorsa ponte” capace di favorire la fattibilità del processo di transizione energetica.

Giuseppe Pasini, presidente Gruppo Feralpi

 

Al direttore - Il Mediterraneo si è riscaldato, osservano gli esperti, e aumentano i fenomeni più estremi e gli uragani: sinora riguardavano le aree tropicali, più a sud. Ora si spostano più a nord e la Sicilia diventa a rischio. Al tempo stesso però, spiega il prof. Navarro (Centro europeo dei cambiamenti climatici che studia il Mediterraneo) “i fenomeni sono diventati più localizzabili e prevedibili”. Questo dovrebbe rafforzare un indirizzo diverso delle politiche climatiche: l’adattamento. Che significa: investire nelle opere di prevenzione, infrastrutturazione e resilienza delle aree (oggi più localizzabili di ieri) dei fenomeni estremi legate ai cambi climatici. Con cui dovremo convivere per (sperabilmente) decenni. E’ una alternativa razionale a politiche sul clima ansiogene, da un lato, e impotenti dall’altro: concentrate solo sulle emissioni di CO2 che avremo al 2050 e sulla scommessa che esse avranno un’incidenza sulle temperature. E nel frattempo, però, nelle aree a rischio, che facciamo? Forse le risorse del Green deal andrebbero usate per l’adattamento.

Umberto Minopoli

 

Pochi giorni fa, il Wall Street Journal ha dedicato un interessante approfondimento su questo tema, sostenendo che il cambiamento climatico ha bisogno non di panico ma per l’appunto di adattamento. Lo ho fatto, il Wsj, citando uno studio  dell’Agu (Advancing Earth and Space Science) in cui si documenta come il più grande pregiudizio negli studi sull’innalzamento del livello del mare sia la tendenza di questi studi a ignorare l’adattamento umano, esagerando i rischi di alluvione nel 2100 di ben 1.300 volte e presumendo che nessuna società in tutto il mondo adotterà alcun adattamento per il resto del secolo. La differenza tra l’allarmismo e la descrizione di un problema è tutta qui: nella creazione di scenari catastrofici che non tengono conto del fatto che le persone  possano fare qualcosa per adattarsi al mondo che cambia.

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