Lettere
Più concorrenza significa più opportunità, non più protezionismo
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Quelli che vogliono che Mario Draghi rimanga a Palazzo Chigi hanno già pronta la lettera di sfratto per dopo l’elezione del nuovo capo dello stato.
Giuliano Cazzola
Sette anni is megl che uan.
Al direttore - La decisione antitrust nel caso Amazon ci ha concesso una imprevista pausa dal dibattito sulla pandemia. Peccato che, al pari dei vaccini, un tema tecnico come quello in oggetto venga declinato secondo la conflittualità delle tifoserie sportive. In questo scenario, l’orientamento dell’Autorità si riverbera in quella temperie di diffidenza che taluni ambienti manifestano nei confronti della modernità, alimentando involontariamente le reazioni più sensibili alle paure per il cambiamento che accomunano i sostenitori di posizioni antiscientifiche agli ossessionati dal neoliberismo. Di questo non si può ritenere responsabile l’Autorità. Rispetto a quanti si sono affrettati a celebrare la sanzione inflitta alla perfida multinazionale straniera, è il caso di ricordare che l’Antitrust persegue finalità importanti ma circoscritte. Non rappresenta il giudizio universale per altre rivendicazioni. La decisione è criticabile per un altro ordine di ragioni. Nel contestare il danno ai concorrenti nel mercato della logistica, l’accusa ricorre all’ipotesi del trattamento preferenziale assicurato ai venditori che si avvalgono del servizio di logistica offerto da Amazon. In questo, l’Autorità si è convenientemente collocata sulla recente scia europea che, nel contesto dei motori di ricerca, ha imputato a Google la medesima condotta. Sotto l’etichetta di self-preferencing possono essere ricondotte le pratiche più svariate (rifiuto di contrarre, compressione dei margini, vendite gemellate, discriminazione), eludendo gli oneri probatori richiesti da ciascuna di esse. Una scorciatoia tanto preziosa quanto rischiosa perché si poggia sul pregiudizio nei confronti di qualunque forma di integrazione verticale e sul presupposto che le piattaforme debbano essere soggette a un obbligo di neutralità al pari di un fornitore di servizi di pubblica utilità. Le implicazioni in termini di innovazione e benefici per i consumatori rischiano di essere negative. A dispetto dei teorizzatori del piccolo è bello, l’integrazione verticale genera efficienze che non giustificano un aprioristico giudizio di disvalore. Inoltre, l’applicazione del medesimo approccio a tutte le piattaforme di una certa dimensione non valorizza le differenze in termini di modelli di business. Qui il paradosso di una potenziale inversione delle finalità antitrust, orientate più verso la salvaguardia della struttura di mercato e, dunque, dei concorrenti (gli “small dealers and worthy men” evocati dal giudice statunitense Brandeis nel lontano 1897) che verso la tutela del benessere dei consumatori. Come ricordato pochi giorni fa dall’avvocato generale Rantos, quest’ultimo costituisce la stella polare di ogni intervento antitrust: non vi è alcuna ragione per proteggere il mercato concorrenziale in abstracto se non esiste alcun rischio di pregiudizio dei consumatori. Nell’epoca della transizione digitale, l’Antitrust è chiamato a scegliere se misurarsi con le sfide della modernità o farsi catturare dalle nostalgie passatiste. Però in fondo Amazon può ritenersi fortunata. Adattando una formidabile battuta cinematografica, poteva andare peggio. Poteva produrre vaccini.
Giuseppe Colangelo e Francesco Nicodemo
Le autorità antitrust europee hanno un problema ormai da molto tempo: piuttosto che fare gli interessi dei consumatori, provando a fare tutto ciò che è nei loro poteri per rafforzare la concorrenza e rendere i servizi più efficienti, cercano di rappresentare lo spirito del tempo combattendo i giganti della tecnologia, preoccupandosi un po’ troppo della loro grandezza e preoccupandosi troppo poco delle ragioni vere del nanismo degli altri. Più concorrenza significa più opportunità, non più protezionismo.