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La debolezza della Nato che non mostra fermezza davanti alle minacce

redazione

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Nel suo saggio “In lode della guerra fredda. Una controstoria” (Longanesi 2015) Sergio Romano ricorda l’impegno che George Bush assunse nel 1991 con Michail Gorbaciov quando lo persuase ad accettare che la Germania unificata facesse parte della Nato: l’alleanza non avrebbe esteso la sua presenza militare al di là del vecchio sipario di ferro. Romano riporta nel libro una rievocazione di quell’incontro – che si svolse a Malta – dell’ambasciatore Usa a Mosca Jack Matlock; considerando i fatti descritti da un testimone presente come il diplomatico americano, l’autore trae le seguenti conclusioni: “Come tutte le intese che (come Yalta? ndr) non si traducono in un formale trattato, anche quella tra Bush e Gorbaciov, al momento dell’unificazione tedesca, può essere letta in diversi modi. Ma lo spirito dell’accordo era nelle parole pronunciate dal segretario di stato James Baker; la Russia rinuncerà alla sua egemonia sull’Europa orientale, gli Stati Uniti non ne approfitteranno per estendere la loro influenza  politica sulla regione”.  Secondo Romano “quello spirito fu certamente tradito”.  Tra il 1999 e il 2004 Repubblica ceca, Polonia, Slovacchia, Ungheria, Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria e Romania, non sono divenuti soltanto paesi membri dell’Ue, ma anche della Nato. Osservando su di una carta geografica aggiornata questi cambiamenti  geopolitici  si può comprendere meglio (anche senza giustificare) la crisi Russia-Ucraina. Le disgregazioni degli Imperi, come degli stati (vedi Yugoslavia),  hanno sempre determinato, nella storia, conflitti e sciagure che dovrebbero indurre la comunità internazionale ad agire con molta cautela e a tener conto del complesso degli interessi in gioco.
Giuliano Cazzola

La cautela è sempre saggia, ma se un paese fuori dalla Nato minaccia un paese della Nato se la Nato mostra cautela, e non fermezza, la Nato mostra debolezza, non saggezza.
 



Al direttore - Il presidente Sergio Mattarella nel suo discorso di reinsediamento cita svariate volte il diritto alla “dignità”; tra queste, la “dignità è assicurare e garantire il diritto dei cittadini a un’informazione libera e indipendente”. Lo fa dopo il lungo e dettagliato passaggio relativo alla magistratura, la giustizia e la sua amministrazione. A giorni la Corte costituzionale darà il suo placet alle sei richieste di referendum promossi da Partito radicale e Lega, per una “giustizia più giusta”. Si potrebbe cominciare da qui? Conoscere cosa si chiede con questi referendum, chi è d’accordo e chi no e perché, rientra nella citata “dignità”? Lo chiedo ai miei colleghi, in particolare quelli del servizio pubblico radiotelevisivo.
Valter Vecellio
 



Al direttore - Ha ragione il Foglio nello scrivere, riferendosi al caso Montepaschi e all’amministratore delegato Guido Bastianini, che non basta far dimettere quest’ultimo per raddrizzare un piano inclinato (in cui verosimilmente si trova il Monte). Ma vi è di più. Il modo in cui ci si è comportati da parte del Tesoro nei confronti di Bastianini, soprattutto per la confusione e l’opacità degli indirizzi, che non sarebbero state consentite a nessun intermediario “privato”, si colloca al di sotto degli atteggiamenti che i partiti della Prima Repubblica tenevano nei confronti delle banche pubbliche, conseguenza della lottizzazione praticata con un raffinato Manuale Cencelli bancario. E ciò proprio quando il Monte ritorna all’utile, sia pure attraverso operazioni complesse. Nessuno ha capito perché Bastianini debba essere avvicendato, con buona pace del mercato, degli investitori, dei risparmiatori, della clientela in genere del Monte, dei cittadini, considerate le ingenti somme di denaro dei contribuenti impiegate dallo stato nell’Istituto. Dunque, l’esempio che dovrebbe dare il Mef ora dovrebbe muovere dalla riparazione degli errori, quanto meno, a essere “buonisti”, di comunicazione. Fin qui si è trattato di un illuminante esempio “a contrario”, dopo gli errori compiuti dal Tesoro nella trattativa con Unicredit, di come, cioè, non dovrebbe mai comportarsi la proprietà pubblica, anche quella assunta in una prospettiva transitoria.
Angelo De Mattia

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