L'alibi della complessità: chi non condanna Putin è complice

Al direttore - Bisogna proprio dirselo: la “complessità” (in sue peculiari declinazioni) è l’anticamera del putinismo.
Pasquale Annichino

  

Le espressioni chiave per capire quand’è che un interlocutore cerca di nascondere dietro al filtro della complessità la sua malcelata ammirazione per Putin sono tre. La prima spia: c’è una guerra tra due modi diversi di fare propaganda, che è ovviamente un falso considerando che vi è un paese che usa la propaganda per giustificare la sua aggressione a un paese sovrano e gli altri paesi che cercano di smascherare la propaganda del paese invasore mettendo a nudo le bugie di un regime. La seconda spia: Putin fa quello che fa perché ha reagito all’allargamento della Nato in Ucraina, che è un altro falso storico perché i paesi Nato che confinano con la Russia esistono già (dalla Lettonia all’Estonia) e perché l’assalto russo è un atto che nasce solo dal puro imperialismo, come è stata costretta a riconoscere in Germania anche la fondazione Rosa Luxemburg, affiliata alla Linke tedesca. La terza spia: mandare le armi in Ucraina non ha senso perché se vuoi raggiungere la pace devi difendere la pace non armare la guerra, che è un’idea che è riuscito a smontare persino un noto guerrafondaio di nome Pietro Parolin, segretario di stato della Santa Sede, che venerdì scorso ha detto che “gli aiuti militari all’Ucraina possono essere comprensibili”. Chi non è netto sull’aggressione in Ucraina non lo fa per questioni legate alla complessità. Lo fa, volontariamente o involontariamente, per questioni legate a una malcelata complicità.


  

Al direttore - Quando Hitler, nel giugno del 1941, diede avvio all’Operazione Barbarossa, le armate tedesche attaccarono l’Urss su  un fronte di 2.900 chilometri, dal Mare del nord al Caucaso. In pochi mesi  penetrarono nel territorio sovietico per più di mille chilometri. Se dovessimo riscrivere la storia secondo i canoni dei nostri “pacefondai per Putin” dovremmo concludere  che  20 milioni di russi e delle altre nazionalità  di quell’immenso paese  morirono nella Seconda guerra mondiale perché Stalin non volle arrendersi di fronte all’evidente squilibrio di forze. Per non parlare, poi, di Winston Churchill che, un anno prima, parlando ai Comuni ebbe l’arroganza di dichiarare: “We shall never surrender”. 
Giuliano Cazzola


  

Al direttore - Com’era prevedibile la riforma della Curia vaticana varata sabato scorso sta già facendo discutere. E se la critica, peraltro scontatissima, che nove anni di tempo per una riorganizzazione che di fatto cambia poco forse sono troppi, è quando si passa al piano sostanziale che alcuni dei rilievi mossi lasciano il tempo che trovano. A partire da coloro i quali, ossessionati dalla difesa del primato della dottrina e dimentichi che la verità predicata dal cristianesimo è primariamente una persona e non un concetto (la persona in questione essendo incidentalmente Gesù di Nazareth), ha voluto vedere nella precedenza accordata al neonato dicastero per l’Evangelizzazione rispetto a quello per la Dottrina della fede, un potenziale vulnus, appunto, nei confronti della dottrina. Come se il maggior rilievo organizzativo dato all’annuncio del Vangelo corrispondesse a una qualche volontà di voler distinguere Vangelo e dottrina, affermando il primato del primo sulla seconda. Peccato che chi ragiona così sembra non mettere a fuoco un paio di punti tanto semplici quanto sovente dimenticati. Primo: il fatto che, banalmente, non ci può essere dottrina senza Vangelo, essendo la prima null’altro che lo sviluppo e la definizione della seconda. Secondo: il Vangelo, per sua natura, è un annuncio che riguarda la vita delle persone, la quale vita è un qualcosa un po’ più ampio e complesso della mera attività intellettiva/conoscitiva.  In questa come in altre vicende vale la legge, propria del cattolicesimo, dell’et-et: contro ogni falsa visione che privilegi o l’uno o l’altra, Vangelo e dottrina sono e debbono restare due facce di un’unica medaglia. In quale ordine ciò si rifletta in un’organigramma, alla fine conta molto poco. 
Luca Del Pozzo