Lettere
La guerra e le sfacciate dispute su vero e fake. Ci scrive Luigi Berlinguer
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Non so se sia l’unico o se si possa financo parlare di aspetti positivi innanzi a massacri, torture, stupri e insomma davanti a tutti gli orrori che la guerra contro l’Ucraina ci sta spiattellando in faccia. Ma almeno per quanto riguarda il discorso pubblico credo si possa convenire sul fatto che in giro c’è molta meno complessità e molta più semplicità. Dico, a livello di commenti e analisi. Non sempre, è vero; ma stando a ciò che si legge e si ascolta non c’è dubbio che la maggior parte dell’opinione pubblica occidentale ha o sembra avere le idee molto chiare su ciò che sta accadendo. Il che, per quel che vale, penso sia una cosa positiva. In effetti le cose, a ben vedere, sono spesso o quasi sempre più semplici di ciò che appare. O di quel che vogliamo (o non vogliamo) vedere. C’è però un “però”. Ed è che se al posto di Putin ci fosse l’Isis, sono moderatamente sicuro che le granitiche certezze che oggi sembrano aver compattato e rinvigorito l’occidente non sarebbero così granitiche. Tutt’altro. E che anzi verremmo afflitti un giorno sì e l’altro pure dai “sì, però anche l’occidente ha le sue colpe” fino all’immancabile “i fondamentalisti ci sono dappertutto”. Allora qua bisogna che ci mettiamo d’accordo: va benissimo la semplicità, a patto però che non vada a corrente alternata e che ciò che è semplice oggi non divenga improvvisamente complesso domani. Come disse quel galileo: “Il vostro parlare sia ‘sì, sì; no, no’, il di più viene dal maligno”. Prendere nota, grazie.
Luca Del Pozzo
Paragoni del genere sono molto complessi, ops, ma un filo conduttore c’è: guai a spacciare per semplice reazione un’azione che deriva dalla semplice volontà di affermare un’ideologia.
Al direttore - Cara Bianca, non sono riuscito a parlarti al telefono, quindi ti scrivo queste poche righe. Anzitutto per scusarmi, avendo letto ciò che il giornale ha rappresentato come mia intervista. In verità, non mi era stata annunciata alcuna intervista da parte del giornalista che mi ha telefonato, il quale mi ha fatto domande su argomenti disparati e mai avrei immaginato che invece volesse confezionare un articolo tutto su di te. Non immaginavo neppure che le mie parole fossero raccolte col precipuo scopo di denigrarti. Ciò che, ti assicuro, non è mai stata mia intenzione fare. Anzi ho sempre pensato, e lo sai, che le posizioni di prestigio che hai occupato e che ancora occupi, siano il riflesso delle tue innegabili capacità professionali e che il nostro nome non ti abbia aiutato ad acquisirle; semmai il contrario. Mi accingo perciò a inviare questa smentita al giornale affinché la pubblichi. La invio anche a te, affinché ne faccia l’uso che più ritieni opportuno.
Con la stima e l’affetto di sempre, tuo
Luigi Berlinguer
Risponde Carmelo Caruso. Quelle di ieri erano parole di saggezza. Quelle di oggi sono parole d’amore. Rimane inalterato il nostro affetto per tutti i Berlinguer.
Al direttore - Occorrerebbe intendersi, sui doveri propri dell’informazione. Perché se alla notizia degli stupri sistematici, dei civili rastrellati e abbattuti con un colpo alla nuca, degli ospedali bombardati, tu ti incarichi di sfruculiare pregiudizialmente, perché in guerra vai a sapere dov’è la verità, perché si fa propaganda da entrambe le parti, perché la notizia va vagliata, e magari per il vaglio ti affidi anche all’istruttoria fake allestita dal patrono dell’aguzzino, allora stai esercitando un dovere diverso: quello di chi è infastidito dal pericolo che la notizia sia vera e circoli, e dunque assume l’ufficio di screditarla. Considerazioni banali? Banalissime. Ma è la pratica sfacciata cui stiamo assistendo da un mese e più a questa parte, una ginnastica avvocatesca disciplinatissima nello scrutinare implacabilmente la verosimiglianza della notizia non perché esistono motivi di dubbio che potrebbero destituirla, ma perché destituirla è doveroso: che è l’unico modo disponibile nel disappunto davanti all’impossibilità di fare ciò che si vorrebbe veramente, e cioè non dare la notizia. Il procedimento lavora in associazione internissima con l’altra versione del pacifismo mobilitato non sul farsi dell’operazione speciale, ma sulla scelleratezza di chi vi resiste: e si sviluppa indugiando inquirente sulla specchiatezza etica di quello con le mani legate dietro alla schiena, imperdonabilmente insubordinato al dovere morale della resa. Si potrebbe obiettare che dopotutto a questa bella abitudine non si abbandona il complesso dell’informazione. Che sarà anche vero ma non mi pare un motivo sufficiente per negare che l’abitudine c’è ed è pessima e allarmante.
Iuri Maria Prado