Per energia e rifiuti si avvicina la bella stagione dei tabù che cadono
Chi ha scritto al direttore
Al direttore - Due precisazioni all’ottima intervista del dott. Paolo Gallo a lei concessa. Non esistono paesi che “vivono di nucleare”. Esistono paesi che ricorrono anche al nucleare (nella misura, più o meno, del 25 per cento della produzione elettrica). Questi paesi, avendo una diversificazione maggiore, già oggi hanno sicuramente un problema di dipendenza minore di quello dell’Italia. Certamente, nessun paese pensa di diversificare il suo mix con le sole fonti rinnovabili. Questa fragilissima utopia circola solo, e sempre meno, in Germania e in Italia: i due paesi messi peggio quanto a mix energetico. Dovunque la diversificazione ottimale del futuro (entro il 2050) è: gas privo di carbonio, idrogeno, fonti rinnovabili continuative (biometano, idroelettrico, geotermia), solare, eolico, nucleare. Nessuno intende vivere di una sola “fonte”. Secondo: il nucleare cui oggi si fa ricorso non è, affatto, di ricerca e sviluppo. E’ fatto, invece, di una gamma di reattori, di nuova generazione, già in costruzione (circa 51), di larga potenza (dai 700 ai 1.600 megawatt). E sono in arrivo sul mercato reattori di più piccola taglia (fino ai 600 MW). Sarebbe interessante capire, da parte di politici e manager pubblici, perché l’Italia non debba far ricorso, da subito, a questo nucleare “esistente” per diversificare le sue fonti. Quali sono i motivi ostativi: costi, tempi di costruzione, sicurezza? Li si ponga, se si crede che ci siano, e si consenta una discussione. Infine c’è, certamente, un nucleare di ricerca (quarta generazione e fusione). Arriverà, si presume, sul mercato dopo il 2040. Per quella data, si spera, il sistema energetico italiano dovrà essere stato già, sensibilmente, diversificato. Sennò è dura. Credo che il dott. Gallo convenga.
Umberto Minopoli, presidente Associazione italiana nucleare
Quando si parla di neutralità energetica, di questo si dovrebbe parlare: non avere pregiudizi su nessuna fonte di approvvigionamento e costruire la propria indipendenza energetica senza essere ostaggi di vizi ideologici. Vale per il nucleare, naturalmente, ma vale anche quando si parla di rifiuti. E nella stagione dei tabù che cadono avere un sindaco di Roma, del Pd, che decide di fottersene dei tabù populisti per costruire finalmente un termovalorizzatore per i rifiuti di Roma è una di quelle notizie che riescono a metterti di buon umore.
Al direttore - A proposito di genocidio. Non è il superlativo di omicidio di massa. La sua unicità è oggettiva, non solo funzionale a isolare la mostruosità della Shoah. A illustrarlo serve un episodio accaduto durante la Seconda guerra mondiale in Ucraina e descritto da Jonathan Littell ne “Les bienveillantes”. Siamo a fine 1942, uno dei momenti più drammatici della campagna di Russia, con i tedeschi che lottano per evitare di finire accerchiati in un gigantesco “Kessel”. E in quelle circostanze sorge il problema dei Bergjuden, e diventa una questione di principio. Il generale Von Kleist, comandante di tutte le truppe tedesche nel Caucaso, contava sulle tribù Cabarde per costruire e controllare un distretto autonomo. Quando le SS, dopo i funzionari comunisti, avevano cominciato a fucilare anche i Bergjuden, i Cabardi si erano ribellati: questi, dicevano, non sono di razza ebraica, sono una tribù di montagna convertita all’ebraismo. Mangiano come montanari, dicevano, vivono insieme a loro, si sposano tra loro: i Cabardi non accetterebbero che venissero uccisi e neppure che dovessero portare la stella gialla. Per la Wehrmacht, se non sono di razza ebraica e non presentano rischi, non è necessario che la Sicherheitspolizei prenda misure ostili; l’esercito formerà comunque una propria commissione di esperti, che riferirà al generale Köstring. Anche per le SS i Bergjuden sono popoli orientali di discendenza indiana ma di origine ebraica arrivati nel Caucaso nell’VIII secolo, o da Babilonia: ma per loro tutti gli ebrei devono essere considerati corpi estranei, è una questione razziale. Fanno arrivare un loro esperto da Berlino, in aereo fino a Kyiv e poi in treno: ma le sue analisi linguistiche, di onomastica, di antropologia fisica del cranio e del naso si rivelano inconcludenti: resta solo la questione razziale. Che per le SS è la soluzione finale decisa della Conferenza del Wannsee, l’eliminazione dall’Europa di quello che oggi chiameremmo il Dna giudaico. Senza dubbio non è questo l’obiettivo dell’invasore di oggi: non vuole eliminare il genus, ma la gens, è la Weltanschauung di chi vuole la libertà democratica che intende sradicare a tutti i costi. Ma chiamarlo genocidio è improprio, mentre quella che deve risplendere chiara è la volontà, disperatamente dimostrata dagli ucraini, di voler appartenere alla nostra associazione civile di stati.
Franco Debenedetti