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“Errore madornale le armi all'Ucraina”. Salvini, ma che stai a di'?
Le lettere al direttore del 25 maggio 2022
Al direttore - Quando Aristofane mise in scena “Lisistrata” (411 a. C.), Atene era in guerra con Sparta e dilaniata da aspri conflitti intestini. L’eroina della commedia, il cui nome significa “colei che scioglie gli eserciti”, convince le donne della città a indire uno sciopero del sesso per sedare gli istinti aggressivi e bellicosi dei maschi in armi. La “riconcilazione” con il nemico esterno e tra le fazioni in lotta tra loro nella polis, simboleggiata da una figura femminile nuda, fu pressoché immediata. Si dirà che l’idea partorita dal genio comico del commediografo greco può funzionare solo a teatro. Eppure, se spuntasse una Lisistrata tra le donne russe… Mai dire mai.
Michele Magno
Al direttore - Un mio amico carissimo che sulla guerra la pensa come me – gli ucraini difendono anche noi, la loro resistenza contro Putin va sostenuta con ogni mezzo tranne mandare i nostri figli (noi se Dio vuole comunque troppo vecchi) a combattere – è lacerato dentro. Non sopporta di stare dalla stessa parte di tanti abituali avversari di idee: giornalisti “riformisti” – in verità abbastanza “reazionari” – più realisti del re, i quali ripetono continuamente “armiamoci e partite” (si tratta spesso di ex comunisti con l’ossessione di ribadire ogni minuto al mondo e a sé stessi di essersi redenti); oppure esperti di geopolitica e strategia militare replicanti del “dottor Stranamore” (nuova formidabile compagnia di giro dopo i virologi degli ultimi due anni, viene il dubbio che in qualche caso siano virologi dissimulati per sopravvivere in tv) che quando parlano dei droni americani di nuova generazione in arrivo per Kiyv gli brillano gli occhi.
E non sopporta di avere contro un sacco di gente “de sinistra” che sull’idea di progresso, sui valori – dall’ambiente alle diseguaglianze, anche al pacifismo quando non degenera in confusione tra vittime e carnefici – è tanto più vicina a lui dei suddetti. Non faccio nomi, non voglio problemi. E’ una contraddizione tanto più seria perché tende ad allargarsi mano a mano che l’opinione degli italiani sulla guerra si allontana da quella del mio amico (e dalla mia) e si avvicina a quella degli altri, come sta capitando. Capisco il disagio del mio amico, ma io non lo sento. Generalmente adoro la dialettica, la polemica, sono fazioso, ma in questo caso no: se sento parlare in tv non dico un russo filo Putin ma anche soltanto uno di quelli che “e allora la Nato?”, cambio canale. Vorrei, è un’illusione ed è un cattivo pensiero, che fino a quando non avrà vinto l’Ucraina (in un modo o nell’altro, sono convinto, vincerà) il nostro dibattito pubblico – social a parte, a quelli sono rassegnato – si conformasse ma senza obblighi, per scelta spontanea di chi lo “allestisce”, a un rigoroso, piatto conformismo. Oggi capisco meglio perché i francesi hanno inventato il motto “à la guerre comme à la guerre”, e capisco che vale anche per guerre (fortunatamente) metaforiche come quella nostra di queste settimane.
Roberto Della Seta
A proposito di pace. Nella gara a chi è il più confuso tra i politici italiani, da qualche giorno a questa parte la palma del campione assoluto va certamente a Matteo Salvini. Ieri sera, il leader della Lega ha detto che “continuare a mandare armi è un errore madornale che allarga il conflitto”, che è più o meno la stessa posizione che ha sul conflitto il suo vecchio amico Vladimir Putin, che da novanta giorni chiede all’occidente di non armare la resistenza dell’Ucraina per poter conquistare l’Ucraina con più facilità. Il problema è che Salvini, ancora una volta, o non ricorda cosa ha votato, con il suo partito in Parlamento, o semplicemente non sa cosa ha votato con il suo partito in Parlamento. La risoluzione di inizio marzo, votata anche dalla Lega in Parlamento, prevedeva anche “la cessione di apparati e strumenti militari che consentano all’Ucraina di esercitare il diritto alla legittima difesa e di proteggere la sua popolazione” ed è una risoluzione valida fino al 31 dicembre. Salvini, ma che stai a di’?
Al direttore - Il 20 maggio 1999, alle 8.30 a Roma, a pochi passi da casa sua, viene atrocemente ucciso Massimo D’Antona, giurista e docente universitario di Diritto del lavoro nella facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, consulente dell’allora ministro del Lavoro, Antonio Bassolino. Poche ore dopo, arrivò la rivendicazione delle nuove Brigate rosse: “La nostra organizzazione ha individuato il ruolo politico-operativo svolto da Massimo D’Antona”. Il professor D’Antona fu ucciso per aver segnalato quanto accade nei paesi più avanzati in tema di diritto del lavoro, per essersi dedicato a costruire un ponte tra il consenso di oggi e quello di domani, per essere semplicemente stato uno studioso al servizio dello stato. Fu terribile: qualche giorno prima (il 12 maggio 1999), avevo sostenuto l’esame di Diritto del lavoro e lui era lì sorridente in aula come sempre. Noi studenti eravamo affascinati dalle sue qualità umane e professionali. Era un uomo mite che del dialogo e dell’evoluzione del diritto del lavoro aveva fatto la sua filosofia di vita. Ricordarlo è un dovere e un segno di attenzione umana e civile. Queste morti violente ci devono far riflettere: non devono esistere ragioni di dissenso politico o sociale che possano giustificare forme di ricorso alla forza destinate a sfociare in atti così efferati.
Andrea Zirilli