Lettere
La battaglia su due fronti di un prof. e uno sciopero ingiustificato
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Un liberale che parla chiaro: “Me ne fotto di quello che pensa la maggioranza degli italiani sulla guerra. Io penso che è necessario continuare a sostenere le ragioni dell’Ucraina sino alla sconfitta politica e militare di Putin. Aspetto un leader politico che dica la stessa cosa in termini netti e decisi” (Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Einaudi, Twitter).
Michele Magno
Se si cerca qualcuno che esprima questo concetto con le parole, si resterà delusi. Se si cerca qualcuno che esprima questo concetto con i fatti, però, si resterà soddisfatti, e in Europa c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Al direttore - Caro Cerasa, voglio rivolgermi alla sua sensibilità, che so essere viva e accorta su questi temi, per parlarle di scuola. Io insegno Filosofia in un liceo classico di Napoli e l’altro giorno, con molti dubbi e molti mal di pancia, ho deciso di scioperare, attirandomi addosso le critiche di molti amici “riformisti”, che in questo mio gesto, condiviso con molti altri, hanno visto una oggettiva e ingenua copertura del solito corporativismo sindacale, che tante sciagure ha comportato negli anni per la scuola. Per questa ragione se lei me lo consente, vorrei spiegarmi. Chi non vive quotidianamente la realtà della vita scolastica, non si rende conto che un insegnante che voglia svolgere con rigore e serietà la sua professione, deve oggi combattere su due fronti: uno è quello della piatta cultura egualitaristica e corporativa dei sindacati, che reagiscono con la solita chiusura ideologica ai temi del merito, del reclutamento, della formazione e della valorizzazione della docenza e che tendono a concepire la scuola esclusivamente come un collocamento per precari, una protesi dell’inclusione sociale, atta a venire incontro alle disfunzioni e inerzie del mercato del lavoro. Ma l’altro fronte, non meno pernicioso, con cui quello stesso insegnante si trova a combattere ormai da decenni, è quello di una cultura della formazione e dell’educazione tutta declinata in chiave formalistica, utilitaristica e funzionalistica, quasi che la scuola sia una variabile dipendente del mercato del lavoro e non un laboratorio di cittadinanza in cui formare soggetti capaci di capire e interpretare criticamente la realtà. Questa impostazione, che avanza dalla “riforma Berlinguer”, permea ogni aspetto della vita scolastica imprimendo un sigillo da un lato amministrativo-burocratico e dall’altro neopositivistico alla professione che siamo chiamati a svolgere. Questo, per me e per molti altri che insieme a me l’altro giorno hanno scioperato – pur nella consapevolezza che la piattaforma sindacale muoveva dal solito rivendicazionismo sulla povertà delle risorse, sui quattro soldi che ci vogliono offrire per il rinnovo contrattuale, sui precari, etc. etc. – significa che noi non rifiutiamo affatto in linea di principio un nuovo reclutamento, una nuova idea di formazione, etc., ma riteniamo che i criteri con cui quel reclutamento e quella formazione vengono pensati non hanno nulla, ma proprio nulla a che spartire con una seria cernita della qualità della docenza. Non è possibile ritenere che un docente qualificato sia un soggetto capace di districarsi esclusivamente con le competenze digitali e poi astenersi dal verificare se dietro un PowerPoint c’è il nulla o meno. Non è possibile che quando si parla di corsi di formazione non si senta MAI la necessità di dedicarli all’approfondimento “disciplinare” e all’affinamento della relazione personale con lo studente; ma invece si intoni lo stesso stucchevole peana di sempre sulle magnifiche sorti e progressive di una docenza tutta sagomata sulla digitalizzazione e basta. Vede Cerasa, la mitologia delle tecnologie digitali come surrogato dell’insegnare è una mistificazione ideologica che tende a requisire l’aspetto inevitabilmente soggettivo e interpretativo del ruolo docente; così come la presunta valutazione oggettiva degli studenti, che ci riempie di carte ogni mattina e che non valuta un bel niente. Anch’essa tende solo a costruire gabbie standardizzate per imbrigliare la ineliminabile componente anch’essa soggettiva della valutazione. Potrei continuare, sulla falsariga di questi esempi, a elencarle tutta una serie di attività che ci impongono surrettiziamente nelle scuole, millantandole come necessarie – come Pcto – ma che non hanno alcuna – mi creda, alcuna! – ricaduta formativa, e che hanno un solo fine: quello di sottrarci tempo alla cura vera degli studenti. Perché quella cura necessita di una sola preziosa risorsa, il tempo di lavoro vivo in aula e fuori, che ci stanno requisendo in tutti i modi.
Caro Cerasa, la solitudine degli insegnanti è questa: il non sentirsi rappresentati affatto dai sindacati ideologici e nel contempo sentirsi considerati da ministero e burocrazia dei ministeri come puri e semplici “facilitatori” che non devono porre questioni culturali ma devono essere funzionali alla macchina. Pertanto, nelle scuola, come lei avrà capito, si fa un po’ di tutto salvo che insegnare veramente; e chi lo vuole fare deve ingaggiare una battaglia quotidiana contro inerzie burocratiche e nuovismi vacui e pretenziosi, alla fine dei quali esce sfiancato. Anche per questo alcuni di noi, con tutti i limiti delle parole d’ordine del sindacato, hanno voluto scioperare l’altro giorno. Per mandare un segnale che è un disperato grido di allarme. Perché una scuola ridotta nel modo con cui riforme e riformette l’hanno ridotta, andrà a schiantarsi sugli scogli. E con essa il paese e chi dalla scuola potrebbe aspettarsi riscatto sociale ed emancipazione culturale.
Gennaro Lubrano Di Diego, docente di Filosofia e Storia presso il Liceo classico statale J. Sannazaro, Napoli
Caro professore, se tutti i docenti che scioperano avessero il suo formidabile spirito costruttivo il mondo dell’istruzione avrebbe meno nostalgia del passato, meno amore per lo status quo e meno propensione a farsi dettare l’agenda dai sindacati. Purtroppo, però, scioperi come quello del 30 maggio sono stati convocati con uno spirito diverso da parte dei sindacati: manifestare contro un dl (il dl 36) che attua un obiettivo del Pnrr: la riforma delle carriere dei docenti scolastici, che inserisce un minimo di formazione e meritocrazia all’interno del processo di crescita professionale. Lo sciopero, naturalmente, è un diritto di tutti i lavoratori, ma nella scuola purtroppo lo sciopero assume sempre una dimensione speciale: il danno non colpisce il datore di lavoro ma colpisce gli studenti e le loro famiglie. E in una fase storica come quella che abbiamo vissuto negli ultimi anni, una fase in cui la pandemia ha strappato ai nostri figli molti giorni di scuola, giustificare scioperi poco comprensibili è diventata una missione quasi impossibile.