Italia, terra di santi, poeti e manovratori (di crisi di governo)
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Se Draghi va avanti, santo subito. Se si dimette, beato subito (non serve aver compiuto un miracolo; è sufficiente il riconoscimento del suo martirio). Beninteso, in entrambi i casi serve una dispensa papale per un vivo. Ma Francesco, che ben conosce l’amara invettiva di Dante sulla condizione politica del nostro paese (“Ahi serva Italia, di dolore ostello”), come potrebbe negargliela?
Michele Magno
Com’è che si diceva? Terra di santi, poeti e manovratori – di crisi di governo.
Al direttore - Il gran rifiuto senza sfiducia e con una maggioranza parlamentare ampia sarebbe la prova che non è, come è stato detto, il “burattino degli americani” (che lo supplicano di restare) né il terminale di una lobby globale tecnocratico-finanziaria (che lo supplica di restare) né il “nonno al servizio delle istituzioni” (che lo supplicano di restare). Si porrebbe, allora, l’interrogativo: ma chi è, davvero, SuperMario Draghi? Solo un uomo. Un uomo stanco e risentito come molti. Ne uscirebbe, ma ne uscirebbe bene?
Andrea Cangini, senatore di Forza Italia
Ribaltiamo la domanda: Draghi ne uscirebbe bene uscendo, cioè non provando ad andare avanti, o ne uscirebbe bene rimanendo, preoccupandosi di cosa accadrebbe senza provare ad andare avanti?
Al direttore - Credo che in questo momento se Giorgia Meloni avesse grande fiuto politico dovrebbe sostituire il Movimento 5 stelle, nella fiducia a Mario Draghi fino alle elezioni del prossimo anno.
Giuseppe Buttura
Gli alleati del centrodestra farebbero di tutto, pur di non governare con il centrodestra.
Al direttore - Due note vicende di cronaca giudiziaria – nelle quali si è appena concluso il giudizio di primo grado, sebbene siano risalenti a fatti molto lontani nel tempo tra loro – riaccendono i fari sul rapporto fra giustizia e informazione e su come venga percepito, nell’opinione pubblica, il senso di giustizia. Da un lato, quella relativa alla morte di Willy Monteiro Duarte (avvenuta a Colleferro nel 2020); dall’altro, quella relativa alla morte di Serena Mollicone (avvenuta ad Arce nel 2001). Nella prima, gli imputati sono stati condannati (due dei quattro all’ergastolo e gli altri due a pene superiori ai 20 anni); nella seconda, gli imputati sono stati assolti. Nella prima, gli organi di informazione non hanno tardato a titolare “giustizia è fatta”; nella seconda, la lettura del dispositivo è stata accompagnata da insulti agli imputati, i quali – riporta sempre la stampa – sono scampati a tentativi di linciaggio fuori dal tribunale. Addirittura, nella seconda vicenda, la procura di Cassino si è sentita in dovere di rilasciare un comunicato stampa nel quale, dopo aver preso atto della decisione – che la Corte “nella sua libertà di determinazione” ha preso – ha precisato che l’accusa “non poteva fare di più” e che il “contraddittorio tra le parti nel corso delle numerose udienze celebratesi davanti alla Corte evidentemente ha convinto i giudici circa la non colpevolezza degli imputati”. Sorvolando sull’avverbio “evidentemente”, viene da chiedersi: ma se è stato il contraddittorio tra le parti – ossia il cuore del nostro processo accusatorio – a convincere la Corte della non colpevolezza degli imputati, in che senso la procura “non poteva fare di più”? Più di cosa? Perché è lecito esclamare “giustizia è fatta” solo nel caso di condanna degli imputati e non è consentito farlo quando il verdetto è, invece, di assoluzione? Ha descritto bene il fenomeno il prof. Glauco Giostra, il quale, in diversi scritti, ha parlato delle conseguenze di quella narrazione mediatica che, sovrapponendo i concetti di accusa e di colpevolezza, di giustizia e di condanna, alimenta una “impaziente attesa di risultato” che, inevitabilmente, finisce con l’accentuare, nell’opinione pubblica, orientamenti colpevolisti e aspettative di condanna. Conseguenza perversa di questa narrazione è la sovrapposizione tra esigenza di “giustizia” ed esigenza di “condanna”, come se solo la seconda possa essere in grado di appagare la prima. Ciò porta alla irragionevole conseguenza – anche questa evidenziata dal prof. Giostra – che l’esclamazione “giustizia è fatta” sia ormai sostanzialmente riservata all’esito di un processo conclusosi con la condanna. Con buona pace degli assolti.
Guido Stampanoni Bassi, direttore della rivista Giurisprudenza Penale