Lettere
Il problema di Meloni non è il fascismo, ma il complottismo
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Nel 1822 Gioacchino Rossini rende visita a Beethoven nella sua casa di Vienna, famosa per essere un tugurio dal soffitto sfondato e col pitale sempre sul pianoforte. Dopo uno scambio di opinioni sulle tendenze musicali dell’epoca, il genio di Bonn lo congeda invitandolo a comporre in futuro solo opere buffe perché gli italiani non erano fatti per l’opera seria. Anche se sette anni più tardi il genio di Pesaro lo avrebbe clamorosamente smentito con il “Guglielmo Tell”, un capolavoro del teatro romantico, l’aneddoto è significativo. Infatti, attesta la circolazione nell’élite culturale dell’impero asburgico di un’idea polemica del nostro carattere nazionale, sordo alle profondità del dramma. Dopo la sconfitta di Hitler, nel “Doctor Faustus” (1947) Thomas Mann riprende questa rappresentazione dell’anima prosaica e “spensierata” dei discendenti di Enea e la contrappone a quella del popolo tedesco, impavido nel percorrere fino in fondo il suo destino catastrofico. Cesare Garboli nei suoi “Ricordi tristi e civili” (2001) ha smontato in un paio di paginette magistrali la mitologia del teutonico descritta, in termini ora dionisiaci ora nibelungici, dal grande romanziere di Lubecca. Tuttavia, non c’è dubbio che così ci hanno visto, e ancora ci vedono, gli innumerevoli viaggiatori scesi dal nord per godersi il mare e il sole che tanto ci invidiano: politicamente cinici ma deboli, sentimentali, festevoli; inclini a recitare, cantare, ridere. Insomma, come il paese di Machiavelli per chi ha studiato, di Pulcinella per gli illetterati. Questo paese, che ha subìto la tragedia del regime mussoliniano, oggi è ai piedi di una signora per la quale il fascismo è diventato una polvere, la forfora che si spazza via dall’abito prima di una passeggiata. Giorgia Meloni, le va riconosciuto, sta conducendo una campagna elettorale molto efficace, che fa leva sull’atavico istinto gregario di quella maggioranza degli italiani che si vanta di fottersene del passato. Pure la politica senza la storia, osservava Alessandro Manzoni, è come un cieco senza una guida che gli indichi la via. Mala tempora currunt, sed peiora parantur.
Michele Magno
Il problema di Meloni non è il fascismo, quantomeno non è un problema per lei, perché pur avendo passato buona parte degli ultimi anni a candidare in giro per l’Italia tutti i discendenti possibili del Duce (da Rachele Mussolini, nipote di Mussolini, al comune di Roma a Caio Giulio Cesare Mussolini, figlio di Guido, secondogenito di Vittorio Mussolini, che a sua volta era figlio del dittatore fascista, alle europee) non è sospettabile di esserle fascista. Il problema, semmai, è la capacità da parte della destra meloniana di essere un argine agli estremismi, di essere un muro contro la xenofobia, di essere un muro contro gli anti europeisti, di essere un muro contro i complottisti. Il problema di Meloni è questo. Più il complottismo che il fascismo. Ne riparleremo.
Al direttore - Sabato Giuliano Amato ha presentato in quel di Maremma il suo libro “Bentornato stato (ma)”. La lettura dell’editoriale di Giuliano Ferrara (“Auguri ai liberali onesti, ma come sempre narcisi e minoritari. Meglio sarebbe l’unità laica delle forze o mettere mano alla pistola”) mi suggerisce un accostamento tra il libro attualissimo del presidente della Corte e lo stimolante articolo di Ferrara. Perché, se il libro illustra con un filo di preoccupato pessimismo l’enormità delle sfide che ci stanno di fronte e i rischi che corrono le nostre democrazie “non governanti” vis-à-vis con le autocrazie decidenti, l’articolo illumina sull’individualismo tribalistico, il “minoritarismo di idee e proposte”, la “psicologia diasporica” dei liberali italiani, la loro campagna contro l’ammucchiata, che è una battaglia di “fiancheggiamento” della destra arrembante, con dovizia di riferimenti culturali e storici che imporrebbero di mettere mano a una biblioteca. Chi ogni due per tre parla dell’agenda Draghi dovrebbe ricordare che la cifra del premier è il pragmatismo non il dogmatismo. Siamo a rischio, ammonisce Amato. Chi dice che non si fa politica contro qualcuno si rilegga Weber o metta mano alla pistola, chiude il pezzo Ferrara. Chapeau a tutti e due.
Marco Cecchini
Al direttore - Per correttezza bisogna riconoscere a Giuseppe Conte di aver compiuto alcune operazioni nell’interesse del paese. La prima nell’estate del 2019, quando colse l’opportunità fornita dall’autogol di Salvini per cacciarlo dal governo. Ma il ringraziamento più grande gli è dovuto per aver dimostrato, ora, agli adoranti conduttori televisivi che Dibba è solo un ragazzotto spaesato e non un Che Guevara de noantri.
Giuliano Cazzola
Al direttore - Le “Terze forze” minoritarie (altra cosa dal centro democristiano) hanno sempre svolto nel Dopoguerra una funzione liberale. I repubblicani Sforza e Pacciardi hanno contribuito al fianco di De Gasperi ad allineare l’Italia all’Atlantico e all’Europa; Saragat ha salvato il socialismo dal frontismo totalitario; Malagodi nel centrodestra ha preservato da monarchici e missini una posizione liberale; Pannella ha guidato la stagione dei diritti civili trascinando i comunisti e anche alcuni cattolici; Craxi ha allargato il cuneo riformatore tra gli integralismi del Pci e della sinistra democristiana… Quando i terzaforzisti sono scomparsi, i populisti grillini e leghisti hanno dominato. Perciò la scelta autonoma di Carlo Calenda, coraggiosa se pur volontaristica, va premiata. Il cosiddetto “Churchill dei Parioli”, purtroppo non è Churchill e non ha neppure la stazza politica dei grandi terzaforzisti del passato. Ma ogni tempo politico ha le sue glorie e le sue pene. Per questo, di fronte ai rifugi scelti da alcuni ex liberali nel “frontino popolare anti” e nell’“Union Sacrée in salsa vox-meloniana”, la scelta calendiana merita il voto. Un saluto.
Massimo Teodori