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Lettere

Letta sulla scia di Sánchez, Scholz, Starmer e Biden? Chissà

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Ita: me te ricompro.
Giuseppe De Filippi


 

Al direttore - La cosa che mi è piaciuta di più dell’editoriale di Giuliano Ferrara ieri sul Foglio, editoriale di cui condivido quasi tutto con l’eccezione di un certo ottimismo sul bilancio della legislatura (il debito resta un incubo), è la definizione di Letta leader “floscio”. In tempi di improvvisati leader arrembanti con poca storia dietro di sé mi pare decisamente un complimento. Certo un po’ di pepe aiuterebbe, ma chi non ricorda la soporifera Angela Merkel? Nessuno agli inizi la prendeva sul serio. Ti addormentava con pesanti considerazioni di apparente buon senso e quando stavi per chiudere gli occhi piazzava la stoccata che ti prendeva di sorpresa, impreparato a reagire. Così per anni ha controllato il Bundestag e tenuto testa agli avversari. Il floscio Letta ovviamente non è Merkel. Ma un po’ di sano e noioso merkelismo (o draghismo) come metodo in questa ridda di arrembanti e vocianti politici politicanti nostrani non guasterebbe.
Marco Cecchini

 

Sánchez in Spagna, Scholz in Germania, Starmer in Inghilterra, Biden negli Stati Uniti. La soft left, finora, ha dimostrato di sapere raccogliere consensi, anche in situazioni difficili. Il tempo ci dirà se l’Italia, con la soft left di Enrico Letta, sarà un’eccezione che conferma la regola o una regola che continua a imporsi nonostante l’eccezionalità del contesto. 


 

Al direttore - Quali che possano essere i leader e la classe politica di riferimento, con l’articolo di sabato Marcello Pera pone dei problemi seri. Anzitutto quello della riforma della Costituzione. Sempre che non si intenda sostenere che potrebbe farla soltanto la sinistra, il buon senso suggerisce che a nessun popolo può essere negata la capacità di adeguare la propria Legge fondamentale a situazioni così diverse da quelle nelle quali fu varata. E la tesi di Pera è che, se si riconosce che le società cambiano, anche le regole costituzionali devono essere adeguate. Ma il vero problema di Pera è quello del ruolo della politica nel mondo d’oggi: capire cosa significhi una “politica nazionale” in una situazione geopolitica che richiede una classe politica adeguata. La tesi è che, benché si viva in un paese in cui c’è poco da conservare, ci sia bisogno di un approccio conservatore che muova dal riconoscere che non tutto ciò che è nuovo è parimenti buono e dalla necessità di una politica che abbandoni il velleitario proposito di dirigere il cambiamento e che si limiti a “rallentarlo” e a gestirne decentemente le conseguenze. Evitando che si distribuiscano in maniera tale da accrescere le diseguaglianze sociali; ovvero, quanta differenziazione può permettersi una società in cui situazioni, valori e aspettative si generano tramite canali che le politiche nazionali non controllano. Per Pera a tale situazione si è giunti anche perché il liberalismo avrebbe abbandonato le sue origini cristiane (delle quali personalmente dubito) trasformandosi nell’ideologia liberal del relativismo e del politicamente corretto. In una sorta di progressivismo ingenuo e di edonismo politico-sociale nichilistico e irresponsabile. Certamente, dopo Hayek, il “liberalismo classico” non ha prodotto un’analisi del mondo adeguata a ciò che è cambiato, ma non lo si può confondere con quella tradizione liberal (ovvero liberal-socialista) che ha sempre osteggiato. La tesi di Pera è che per mantenersi viva e vitale una società necessiti di un’identità religiosa condivisa. Il fatto rilevante è però che tra le situazioni inedite vi è la sostanziale scomparsa della religione cristiana nell’occidente. O meglio, il suo essere ormai declinata in modi così diversi da non potere più essere un collante identitario capace di moderare le aspettative individuali. Un fenomeno con cui il pensiero politico e la politica devono fare i conti. Con due corollari. Il primo è che, e Pera lo sa bene, adottando l’ideologia dei diritti umani la Chiesa si è trasformata in un’ecologia della salvezza con sfumature liberal e ostili al mercato. Il secondo è che viviamo in una società in cui tanti sono indifferenti alla religione e quando se ne accenna si chiedono: “Ma di quale tipo di religiosità stai parlando?”. Sperando, molti, che non si tratti di un cattolicesimo in salsa bergogliana! Ed è per questo che non mi sembra che la ricerca dei liberali classici (con rilevanti eccezioni) di una società buona anche se non fondata su presupposti religiosi sia inattuale. Anche perché se è vero che una certa omogeneità sociale può ridurre i famigerati “costi di transazione” (i costi di efficienza e dinamicità di un sistema), le differenziazioni in tema di religione li accrescono.
Raimondo Cubeddu

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