Lettere
Perché il tetto agli stipendi danneggia la Pubblica amministrazione
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - L’amarezza di Fratoianni quando ha scoperto che quello di Letta non era vero amore, ma solo sesso.
Michele Magno
Al direttore - Difendo Enrico Letta. Lo difendo dalle critiche esplicite che gli vengono rivolte e da chi manovra subdolamente in attesa della sconfitta annunciata. Lo difendo ricordando le scelte politiche compiute su questioni cruciali. Enrico ha sostenuto lealmente Mario Draghi. Non era scontato che il Pd lo facesse considerato che il gruppo dirigente del partito per settimane si era lanciato alla ricerca di “responsabili” per tenere in piedi, a ogni costo, il governo dell’avvocato del popolo. Letta ha posto fine alle penose prese di posizione dei dirigenti del Pd che esaltavano Giuseppe Conte, una figura mediocre, priva di storia politica e di basi culturali, come punto di riferimento per i progressisti. Senza incertezze Letta ha scelto di sostenere la resistenza ucraina all’aggressione di Putin schierando il Pd a sostegno di una linea di netta solidarietà atlantica e di deciso impegno dell’Unione europea contro l’autocrazia russa. I problemi del Pd vengono da lontano. Prima dell’assunzione della segreteria da parte di Enrico Letta la linea politica dell’alleanza strategica con il grillismo ha avuto conseguenze deleterie sulla cultura politica del Pd e sul suo rapporto con il paese: ha reso più flebili contatti e relazioni del Pd con mondi produttivi, settori moderni della società italiana, territori propulsivi dell’economia, generazioni più aperte. Letta ha cercato di porre riparo a tutto ciò. Da solo. Si preparano a rimproverarlo di aver chiuso al M5s di Conte. La verità che mi auguro venga fuori è che, se avesse scelto l’alleanza con Giuseppe Conte dopo il sabotaggio di questi del governo Draghi, il Pd sarebbe stato travolto dal voto, avrebbe aperto una autostrada al cosiddetto Terzo polo, avrebbe ulteriormente accresciuto gli spazi politici per la destra.
Umberto Ranieri
Al direttore - La gravità dell’emendamento approvato al Senato sulla deroga al tetto di 240 mila euro annuali per il trattamento economico di determinate categorie di alti dirigenti pubblici, poi abrogato alla Camera, si commenta da sé per il merito, per i tempi, nonché per la modalità volta a cogliere un “veicolo” legislativo veloce e difficilmente modificabile per far passare la deroga stessa. È, dunque, condivisibile ciò che in un editorialino scrive il Foglio del 16 settembre. Ma una eventuale riconsiderazione di questa materia dovrebbe comportare il previo e complessivo riesame del ruolo del dirigente, dell’accesso alla funzione, dei risultati conseguiti, degli specifici meriti, in generale del “curriculum”, delle prospettive post pensione e, non per ultimo, della forbice negli stipendi tra il grado più basso e quelli apicali. Se è giusto che, entro certi limiti, il “pubblico” competa con il “privato”, allora la funzione del mercato che nel “pubblico” non opera deve essere sostituita da altri criteri e indicatori. Solo così, mentre giustamente si discute dell’introduzione del salario minimo e, di fronte alla crisi, si accentuano le condizioni di povertà e di diseguaglianza, si può dare una legittimazione a una eventuale rimozione, che sia selettiva, del tetto in questione, ammesso, ma non affatto concesso, che questa sia una delle questioni prioritarie con la quale confrontarsi oggi. La giustizia commutativa, sempreché di ciò si tratti, non può prescindere dalla giustizia distributiva. Con i più cordiali saluti.
Angelo De Mattia
Caro De Mattia, grazie, ma più che occuparsi della forma forse sarebbe il caso di occuparsi della sostanza. E la sostanza credo che sia semplice: poniamo tutti i paletti che vogliamo, ma smettiamola di dire che il tetto agli stipendi nella Pubblica amministrazione sia un toccasana per la salute del nostro stato. Gli abusi ci possono essere, ovvio, ci possono essere sempre, ma non capire che per avere una Pubblica amministrazione capace di essere competitiva con il privato, capace cioè di essere efficiente come meriterebbe, occorrerebbe rendere la Pubblica amministrazione più attrattiva, anche dal punto di vista economico, mi sembra un modo come un altro per coprirsi gli occhi con una fetta di prosciutto. Tempo fa, su questo tema, chi scrive ha avuto una piccola discussione con il ministro uscente per la Pa, Renato Brunetta, che sulla questione, alla fine, ha espresso una posizione interessante. Il ministro mi perdonerà se la riporto qui. “Il superamento del tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici è un tema che occorre affrontare se si vuole intraprendere una effettiva politica del merito e rendere attrattive alcune posizioni nelle pubbliche amministrazioni. Il superamento del tetto però non deve essere una mera eliminazione, ma deve essere condizionato da una serie di fattori. Innanzitutto la retribuzione deve essere commisurata ai livelli di responsabilità e rischio delle posizioni dirigenziali. Poi ci dovrà essere una rigorosa valutazione dei risultati e l’eliminazione della garanzia del posto come avviene nel settore privato. E un ruolo importante in tutto questo potrà svolgerlo la contrattazione collettiva”. I paletti servono, e certamente temi del genere non si possono affrontare in modo ridicolo introducendo di nascosto un emendamento alla fine della legislatura, ma la questione esiste. E sarebbe bello se il prossimo governo, qualunque esso sia, avesse il coraggio di spostare una piccola fetta di prosciutto dallo sguardo demagogico della nostra politica.