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Buone notizie per il Mef: a Giorgetti non serve l'interprete. Il passato inguaia la destra

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa 

Al direttore - Ho letto, caro Cerasa, che il prossimo ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, non conoscerebbe bene l’inglese. Non mi sembra un problema da poco, per chi avrà forse il compito di parlare anche, e direi soprattutto, con i mercati.
Mario Perroni

 

In verità, le cose dovrebbero essere differenti. Giorgetti, negli ultimi giorni, ci ha fatto sapere che parla bene l’inglese e anche “fluentemente”  il francese (chiedere per credere al ministro  Le Maire, ci è stato detto, che però è noto anche per parlare un ottimo italiano) e persino il tedesco, anche se non benissimo. L’interprete, ci è stato infine riferito, è stato usato da Giorgetti, al Mise, è vero, ma solo quando il suo interlocutore non parlava inglese. Buona notizia. E un piccolo motivo in più per augurarsi che il ministro politico del governo Meloni sia proprio lui. Perché serve un politico al Mef? Per la ragione che abbiamo già spiegato qualche giorno fa: per evitare che un governo a trazione populista porti avanti politiche irresponsabili, avere come ministri in alcuni ruoli-chiave politici che saranno direttamente responsabili delle azioni del proprio governo – Giorgetti al Mef, Salvini al Mite – costringerà i partiti meno responsabili ad assumersi inevitabilmente le proprie responsabilità.

   


    
Al direttore - Non minimizziamo, per favore, il valore dell’atto simbolico compiuto da La Russa nel momento della nomina alla Seconda carica dello stato. E’ vero, la svolta era stata compiuta da Fini, presidente della Camera, quando nel 2008 parlò del 25 aprile come “festa della libertà di tutti gli italiani”. In quell’occasione scrisse parole nettissime, definendo la Resistenza una guerra civile in quanto scontro “tra due diverse idee di nazione. L’una, nutrita dal nazionalismo fascista, conduceva all’espansionismo, al razzismo e all’annullamento dei diritti dell’uomo. L’altra, indissolubilmente legata ai valori della libertà e della democrazia, portava alla costruzione di una nuova stagione di progresso civile per l’Italia. E non c’è dubbio che l’idea giusta fosse la seconda, perché da allora non fu più possibile pensare alla patria separatamente dalla democrazia”. Ma Fini fu poi distrutto da Berlusconi e abbandonato dai seguaci anche per le posizioni, giudicate troppo avanzate, che aveva assunto su questioni come i diritti civili. E quando, nel 2012, alcuni di questi fondarono Fratelli d’Italia, quella fiamma nel marchio (la fiamma che secondo Fini si sarebbe presto dovuta togliere dal simbolo di An) indicava piuttosto il richiamo al Msi, a tutto ciò che Fini aveva voluto lasciarsi alle spalle. Ora toccava a Ignazio Benito La Russa, memoria storica di quella tradizione, pronunciare parole altrettanto nette e questa volta definitive: l’omaggio a Pertini, il partigiano più odiato dalla destra neofascista per il ruolo avuto nella condanna di Mussolini; il ricordo delle vittime di quegli aberranti anni Settanta di cui lo stesso La Russa fu protagonista a Milano; il riconoscimento di tutte le date celebrative della Repubblica – 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno – con la proposta di unire a esse il 17 marzo, festa dell’Unità d’Italia. Per 75 anni una parte degli italiani aveva preteso di rimuovere il carattere costitutivo della Repubblica, semplicemente considerando il fascismo una questione del passato. Il 13 ottobre il breve discorso di La Russa ha decretato la fine della destra afascista, anomalia italiana nel contesto europeo, sgombrando il campo alla sua giovane leader che dovrà formare il governo.
Enea Dallaglio

 

Il discorso di La Russa da presidente del Senato, così come quello di Lorenzo Fontana da presidente della Camera, sono stati all’altezza del momento (non all’altezza sono state invece le parole dei due presidenti fuori dalle loro Camere, con Fontana che è  arrivato addirittura a criticare le sanzioni contro  la Russia in diretta tv). Resta il fatto che se il centrodestra avesse voluto, davvero, segnare un passo in avanti verso una stagione di discontinuità rispetto al suo passato avrebbe dovuto preoccuparsi di trovare qualcuno capace di mostrare con chiarezza una volontà esplicita di segnare una svolta rispetto al passato estremista. Così non è stato. Speriamo lo sia il governo. Brividi.

 


  

Al direttore - Ho letto la sua risposta alla mia lettera su Opzione bisex. Faccio però notare che Draghi nella sua proposta non prevedeva che gli uomini potessero andare in pensione a 58 anni, ma almeno a 63. Non è una piccola differenza.
Giuliano Cazzola
 

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