Lettere
Una chicca di B-XVI come regalo a Franco Debenedetti (auguri!)
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Domani Franco Debenedetti, voce tra le più limpide del riformismo italiano, taglia il traguardo dei novant’anni. E’ una bella notizia, anche perché la sua vitalità intellettuale conferma che l’età che conta è quella della mente, mentre l’età anagrafica non è, di per sé, indicativa di nulla. In un paese in cui la retorica del giovanilismo tocca talvolta vette grottesche, è una verità che andrebbe riscoperta. E in un paese in cui si continua a cercare il consenso dei contemporanei a carico dei posteri, la sua biografia di imprenditore e parlamentare, di presidente dell’Istituto Bruno Leoni e di studioso del capitalismo postindustriale, racconta un’altra storia. Una storia che rivendica l’autonomia morale dell’individuo contro le (cattive) ragioni della cattiva politica. L’etica della responsabilità personale dovrebbe essere connaturale alla democrazia liberaldemocratica, fondata su doveri di cittadinanza liberamente accettati e condivisi, mentre vengono meno in una concezione hegeliana dello stato come soggetto che pretende di imporre ai cittadini i loro stili di vita. In questo senso, la libertà non è una polizza di assicurazione sul benessere o sulla felicità. Si può essere agiati e felici senza essere liberi, si può essere liberi senza essere felici e neppure agiati. La libertà assicura soltanto se stessa. Grazie, Franco, per il tuo lungo impegno a favore della società aperta.
Michele Magno
Vorrei regalare al nostro caro amico Franco Debenedetti, a cui auguriamo un magnifico compleanno, una chicca offerta anni fa da Benedetto XVI. B-XVI, a differenza del suo successore, sosteneva che il mercato non fosse necessariamente il ricettacolo dei peggiori istinti umani e nel corso del suo pontificato ha offerto numerosi spunti utili per spiegare la ragione per cui la difesa del mercato fosse in perfetta sintonia con la difesa dei più deboli. In “Caritas in veritate”, per esempio, Benedetto XVI condanna sì le storture del mercato ma fa anche un passo in più e riconosce proprio nel mercato una realtà che ha permesso ai paesi meno sviluppati di fare uscire centinaia di migliaia di cittadini dalla condizione di povertà. Scrive Joseph Ratzinger: “Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani”. Auguri caro Franco.
Al direttore - Ha scritto martedì Gian Carlo Caselli sulla Stampa che uno dei problemi legati alla prescrizione “infinita” sarebbe quello di favorire la coesistenza nel nostro sistema penale di due codici distinti: uno per i “galantuomini” (cioè le persone che, in base al censo o alla collocazione politico-sociale, sono considerati “per bene” a prescindere) e l’altro per i cittadini comuni. In pratica, gli imputati di un certo livello – potendosi permettere avvocati del medesimo livello – potrebbero, sfruttando non si sa quali mirabili opportunità, mettere i bastoni tra le ruote del sistema al punto da potersi poi permettere di aspettare il maturare della prescrizione. Al contrario, per i cittadini di “serie B” – che, in questa particolare visione della giustizia, sono necessariamente assistiti da avvocati della medesima serie (inferiore) – l’unica sorte sarebbe quella di affrontare inermi il processo senza scorciatoie. L’idea che per gli imputati “galantuomini” possa celebrarsi un “processo dei balocchi”, nel quale l’avvocato supereroe sia in grado, a suon di eccezioni e cavilli, di far magicamente slittare il giudizio sul suo assistito fino alla tagliola della prescrizione, è fuorviante oltre che fantasiosa. Da un lato, le statistiche del ministero della Giustizia dimostrano che una percentuale elevatissima delle prescrizioni matura, in realtà, nella fase delle indagini preliminari, ossia prima che qualunque avvocato – per quanto costoso e agguerrito possa essere – abbia materialmente la possibilità di intervenire. Inoltre, come ogni avvocato e magistrato sa bene, il procedimento penale è pieno di “tempi morti” – inevitabilmente collocati nella fase delle indagini o subito dopo la loro conclusione (quindi ancora in una fase in cui l’avvocato non interviene) – che determinano allungamenti dei tempi. E tutto ciò senza contare che ogni impedimento del difensore o del suo assistito, anche volendo, non può incidere sulla prescrizione, che viene sospesa. Insomma, deve ancora essere inventato l’avvocato in grado di dilatare i tempi del processo fino alla prescrizione. Dall’altro lato, la visione proposta dall’ex procuratore Caselli si mostra irrispettosa – ma non è la prima volta – nei confronti della figura dell’avvocato. Pensare che il difensore del cittadino considerato di “serie B” non sia agguerrito o non sia professionalmente in grado di tutelare al meglio i diritti del suo assistito significa ignorare ciò che quotidianamente accade nelle aule di giustizia. Aule di giustizia nelle quali, ogni giorno, si celebrano udienze nelle quali avvocati – di fiducia o d’ufficio, di serie A o di serie B, costosi o economici – si impegnano nel tutelare i diritti di tutti i tipi di imputati. Anche perché – si dimentica di far notare Caselli – su qualunque questione preliminare o eccezione sollevata dalla difesa (pensiamo alle classiche situazioni che vengono presentate come “cavilli” o tecnicismi, quali notifiche, nullità o competenza territoriale) ci sarà sempre un giudice a decidere. Ma, si sa, la colpa alla fine è sempre degli avvocati.
Guido Stampanoni Bassi