Foto di Roberto Monaldo, via LaPresse 

Lettere

Ratzinger e l'alleanza laici-credenti chiamata ad affrontare la crisi

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Caro Cerasa, stando ad alcuni stereotipi, io sarei da iscrivere nel “partito” dei progressisti pro Francesco e contro Benedetto. Non è così. EÈuno schema che mi sta stretto. Le scrivo comunque perché sento il bisogno, per suo tramite, di fare giungere al vostro Matzuzzi (non ho la sua mail) un vivo apprezzamento per la sua disamina circa la condizione della Chiesa.Tra le tante letture di questi giorni – molte insopportabilmente superficiali, pettegole, faziose, soprattutto “fuori centro” – finalmente una che si segnala per lucidità, raro equilibrio, giusta severità. Essa finalmente va alla sostanza delle questioni che affliggono la Chiesa cattolica.

Oltre gli schemi e i luoghi comuni. Pure interessante l’intervista a Michel Onfray, che sostiene tesi diverse ma altrettanto stimolanti. Non sono così sicuro come lui che si dia un nesso così stretto e necessario tra vitalità (o decadenza) del cristianesimo e buona (o cattiva) salute della civiltà occidentale, ma un nesso indubbiamente vi è. Solo, in questo caso, mi permetto di notare che, sulla base di tale assunto, un po’ tutti – e in particolare il Foglio – dovremmo essere meno acritici nel celebrare i fasti e la indiscussa superiorità di una civiltà (società-cultura-istituzioni) che pure è la nostra e non scambieremmo con altre. E comunque coltivando la consapevolezza che il cristianesimo, pur avendo storicamente un legame speciale con l’occidente, per natura e vocazione (universalistiche), aspira a fermentare e insieme a trascendere tutte le civiltà e le culture umane. Sapendo, quando necessario, rimarcare i limiti di esse. Non esclusa la civiltà occidentale, non sempre e in tutto consentanea con un cristianesimo preso sul serio. Con stima.
Franco Monaco

 

È vero, caro Monaco, ma la lezione di Benedetto XVI mi sembra più specifica, più precisa. B-XVI sosteneva che la crisi religiosa, la crisi del cristianesimo, si trova al centro della crisi dell’occidente e che per questo la difesa dell’occidente non può che passare da una santa alleanza tra laici e credenti per difendere il cristianesimo dai suoi aggressori, avendo anche il coraggio di rivendicare, il cristianesimo, la propria differenza da altre religioni. Mi sembra importante, non crede? Grazie della sua lettera.


 

Al direttore - Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha fatto un grande gesto di fine anno. Ha convocato l’ambasciatore dell’Iran e ammonito quel paese a non continuare a torturare e impiccare i suoi cittadini, a uccidere ragazze e ragazzi. Tutti, al di là dell’appartenenza politica, debbono essergli grati. I mullah sono furiosi. Bene. Un tempo si sfilava per la Grecia, la Spagna il Cile, che non è dietro l’angolo, e contro ogni dittatura. Sinora la società civile era stata indifferente ma ora stanno cominciando le manifestazioni. Due giorni fa altri due giovani oppositori sono stati impiccati. E Tajani ha reagito di nuovo. Ha convocato un’altra volta l’ambasciatore e gli ha detto che il suo paese “ha superato la linea rossa”. Bene. Dobbiamo dirlo, sempre scettici come siamo, viva il ministro.
Guido Salvini


 

Al direttore - Con tutti i problemi che danno Totti e Ilary, perché dobbiamo occuparci anche del principe Harry? Non c’è stata la Brexit?
Giuliano Cazzola


 

Al direttore - Cari lettori del Foglio, qualora uno di voi nel leggere il mio pezzo di martedì si fosse recato ieri al numero 240 di viale Trastevere dove avrebbero dovuto essere installate sette pietre di inciampo a ricordare sette ebrei (un uomo, una donna, tre dei loro otto figli, due cuginetti) catturati dai nazi il 16 ottobre 1943 e mandati a morte, sarà rimasto profondamente deluso. Il fatto è che la XII circoscrizione del comune di Roma, quella che avrebbe dovuto scegliere e mandare la squadra di operai atti a installare le pietre di inciampo, si era dimenticato di farlo. Siamo rimasti tutti, a cominciare dai nipoti e dai pronipoti dei martiri del 1943, ad aspettare invano innanzi al 240 di viale Trastevere. Dove è stato un po’ come se i sette ebrei fossero assassinati una seconda volta. È o no la burocrazia italiana la feccia di questo paese?
Giampiero Mughini


 

Al direttore - In un’intervista rilasciata alla giornalista francese Marcelle Padovani, Leonardo Sciascia attribuiva all’assenza del tempo futuro nella sua terra un significato antropologico: “La paura del domani e l’insicurezza qui da noi sono tali che si ignora la forma futura dei verbi. Non si dice mai domani andrò in campagna, ma ‘dumani vaju in campagna’, domani vado in campagna. Si parla del futuro solo al presente. Così quando mi si interroga sull’originario pessimismo dei siciliani, mi vien voglia di rispondere: come volete non essere pessimista in un paese dove il verbo al futuro non esiste?” (“La Sicilia come metafora”, Mondadori, 1979). In verità, l’assenza del futuro si registra in molti dialetti, meridionali e settentrionali, e perfino nell’italiano parlato. Ma non è questo il punto. Parafrasando Sciascia, come non essere pessimisti in un paese dove la maggioranza degli elettori, a dritta e a manca, si vanta di fottersene del passato? 
Michele Magno

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