Lettere
Altro che precarietà, in Italia l'83 per cento dei contratti è a tempo indeterminato
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Nel discorso di Jake Sullivan, pubblicato sabato sul vostro giornale, traspare il grande rimpianto della politica americana degli almeno ultimi dieci anni: la mancata integrazione di paesi autoritari nel mondo democratico quale conseguenza diretta della loro integrazione nell’economia globale. E in special modo, la delusione per l’assenza di ogni spinta in tale direzione da quel ceto medio formatosi in quegli stessi paesi proprio grazie al libero mercato e all’iniziativa privata, accompagnato dalla preoccupazione per le conseguenze politiche di un regresso della stessa area sociale inoccidente. Una delusione, viene da dire però, alquanto sorprendente, almeno per noi europei che abbiamo potuto analizzare da vicino la transizione della Spagna. Un merito vantato dal franchismo infatti, e fondatamente, va riconosciuto, fu la creazione di un ceto medio moderno. Questo non fu franchista, condividendo le stesse aspirazioni e aperture del suo omologo nel resto d’Europa occidentale, ma neppure antifranchista sapendo di dovere molto al Caudillo se non addirittura la sua stessa esistenza. Difficile non fare parallelismi con la nuova borghesia cinese: non comunista, ma realmente anticomunista?
Cordialità.
Duccio Guidi
Gran parte della politica economica internazionale degli ultimi decenni, dice Sullivan, si era basata su una premessa di questo tipo. Si era detto che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo e che portare i paesi culturalmente distanti dall’occidente all’interno di questo ordine li avrebbe incentivati ad aderire alle sue regole. Questo non è successo, in effetti, ma l’elemento interessante del discorso di Sullivan è la sua volontà ferrea non di demolire la globalizzazione ma di indicare una nuova direzione per renderla più efficace. E il motore è questo: non più solo il libero scambio, ma deve essere prima di tutto la sicurezza nazionale. Su tutto quello che non riguarda la sicurezza nazionale, gli affari con la Cina continuano. Su tutto il resto, meglio rafforzare gli affari con chi può aiutare a difendere al meglio la sicurezza dell’occidente. Idealismo, pragmatismo, niente disfattismo. Il modello Sullivan può avere un futuro.
Al direttore - Caro Cerasa, se come lei scrive tutti i partiti accusano gli altri di populismo, allora in qualche misura il populismo è dappertutto. Altro che inutilità di un Terzo polo, che Renzi e Calenda la smettano di far le primedonne e diano spazio anche alle idee e ai volti di tanti cristiani democratici come me, che se Elly va avanti così fuggiranno a gambe levate dal Pd. Parlandone da vivo.
Alberto Ferrari
Al direttore - Dopo aver letto il Dataroom di Milena Gabanelli sulla grave carenza di profili professionali richiesti dalle aziende e sui ritardi delle regioni a impiegare le risorse a disposizione per la formazione mi sono messo a cercare, persino sui bollettini parrocchiali, qualche commento – severo come sempre – del tandem Landini-Schlein. Non ho trovato una sola parola che non fosse “precarietà dilagante”. Lei, caro Cerasa, è stato più fortunato?
Giuliano Cazzola
A proposito di precarietà. Sapete quanti sono i contratti a tempo indeterminato sul totale dei contratti italiani? A giudicare dal modo in cui alcuni talk trattano il tema, la risposta non potrebbe che essere una: praticamente nessuno. A leggere i dati dell’Istat, la risposta, che forse sfugge al tandem da lei descritto, non può che essere un’altra: l’83 per cento. La lezione è semplice: più si lascia alle imprese libertà, più le imprese crescono, più gli imprenditori assumono e più i contratti si regolarizzano. E’ il capitalismo, bellezza.