lettere al direttore
Meloni è cambiata, l'opposizione se ne faccia una ragione e si adegui
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Diciamocelo pure: viviamo un’epoca strana, in cui, venute meno le ideologie, le velleità imperiali e, in fondo, le fedi in qualche assoluto, ci sentiamo costretti continuamente a ripensare i nostri convincimenti, le certezze, le idiosincrasie o antipatie, a scompaginare i princìpi su cui fondare un’identità della quale siamo sempre meno certi. Così, per rassicurare noi stessi del fatto di essere davvero antifascisti, esigiamo che sia Giorgia Meloni a dichiararsi tale: ci accontentiamo che lo dica lei, testuale. Solo allora potremo confortarci: se certe nostre consonanze con un capo del governo erede del fascismo ci preoccupavano non poco, ora che Giorgia è ormai “antifascista” per sua stessa ammissione, possiamo dare il via libera a modi di sentire che sospettavamo “di destra”, dei quali ci vergognavamo non poco. Anche al fatto – clamoroso per chi si professa “di sinistra” – di provare a volte una esitante non-antipatia per Giorgia Meloni: una specie di adesione willy-nilly, nostro malgrado, ad alcune tra le sue scelte. C’è addirittura – tra gli opinionisti “di grido” – chi è stato censurato duramente per avere solo accennato questo moto istintivo di sospensione dell’antipatia. E’ strano: ma Giorgia sembra anche lei preda di questa sindrome, che la induce a simpatizzare, se non con la sinistra, con posizioni tipiche di una liberal-democrazia. Le sue scelte in fatto di politica internazionale – sulla guerra in Ucraina in particolare – ricalcano quelle del suo saggio predecessore e sono ispirate a una schietta visione europeista e atlantista, sia pure macchiata di residui alla Visegrád. Ma, statene sicuri, anche il legame con Orbán subirà l’effetto di questa paradossale sindrome di Stoccolma. Il nuovo rapporto con l’Europa di Bruxelles viene allo scoperto, talvolta, nelle scelte di politica interna, anch’esse ispirate alla continuità col predecessore. In politica estera, e in una certa misura anche quando si tratta di scelte economiche che riguardano l’occidente nel suo complesso, Meloni si comporta dunque come un ragionevole ma fermo e fedele leader europeo. Bruxelles – che l’aveva accolta con imbarazzo e diffidenza, vedendo nella “donna, madre, cristiana” della Garbatella l’ennesimo fenomeno italiano, inaffidabile, un po’ buffo, incapace di parlare in inglese, una specie di Le Pen alla amatriciana – ha cominciato a prenderle misure più esatte e meno rispondenti ai luoghi comuni che riguardano il nostro paese, quando si affaccia oltre Chiasso. Non senza sorpresa, possiamo cominciare dunque a non dissentire su tutto da questa Meloni, anche se non ha voluto professarsi formalmente “antifascista”. Le cose cambiano completamente quando Meloni ha a che fare con le vicende di casa nostra. E’, si può dire, un’altra Meloni, in balia di una triste eredità della quale non tanto lei, quanto noi italiani non riusciamo a liberarci: sia che dichiariamo ad alta voce di averla ripudiata, sia che ci ostiniamo (si ostinino loro, “gli altri”) a rimpiangere e replicare i lugubri riti del “ventennio”. Il fatto è che Giorgia si sente libera di esprimersi sulle questioni internazionali, che non interessano minimamente i suoi compagni di viaggio, ma – si teme – neppure i suoi oppositori. Quando deve invece rivolgersi a problemi che affliggono l’Italia da decenni, mostra di faticare assai a districarsi dalla rissosità, dall’incultura, dal pressapochismo di quanti costituiscono la sua famosa, famelica corte. Solo una robusta opposizione da sinistra l’aiuterebbe, paradossalmente, ad attuare un’inedita ma interessante forma di popolar-conservatorismo che risponderebbe a meraviglia al sentimento comune degli italiani. Vediamo, però, l’attuale opposizione percorsa da fremiti aventiniani, sempre più simile a un povero Amleto che si aggira brancolando per il castello di Elsinore, chiedendosi se convenga “essere” oppure “non essere”: non nel tragico senso scespiriano – intendiamoci – ma in quello di Nanni Moretti.
Michele Marchesiello
L’opposizione, fino a qualche mese fa, sosteneva che Meloni fosse un pericolo per l’Italia per via del suo incontenibile fascismo, per la sua incontenibile fascinazione per gli estremisti, per il suo ingestibile rapporto con l’Europa, per l’ambiguità del centrodestra sulla Russia, per il suo irrefrenabile nazionalismo, per il suo essere una minaccia per la fiducia dell’Italia. Sette mesi dopo il suo arrivo a Palazzo Chigi, la verità è che i criteri scelti dall’opposizione per misurare l’impresentabilità di Meloni si sono trasformati nel suo contrario. E di fronte a una maggioranza che cambia, avere un’opposizione incapace di cambiare è peggio di un peccato: è un imperdonabile errore politico.