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Un argine ai pm più attenti al tribunale del popolo che allo stato di diritto
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - Condivido l’osservazione dei giorni scorsi pubblicata sul Foglio secondo la quale l’uscita di Intesa dal Casl, che è l’organo dell’Abi preposto alle relazioni sindacali, e le posizioni espresse dal ceo di Intesa, Carlo Messina, nel congresso della Fabi, sul rinnovo del contratto dei bancari e sulla partecipazione agli utili delle banche possono rappresentare una ipotesi di ridimensionamento dell’associazione. Tuttavia, da un lato, non escluderei il ritorno di Intesa nel Casl, dall’altro, per l’esperienza che ho anche dell’attività sindacale, ritengo che è essenziale una parte datoriale unitaria qual è l’Abi, oltre alle altre sue funzioni. Diversamente, si andrebbe verso la frammentazione del contratto nazionale, se non proprio verso la sua fine. Non si farebbe l’interesse di nessuno, maggiormente perché ciò avverrebbe in una fase di intensissime e pervasive trasformazioni per affrontare le quali sono necessarie organiche e corrette relazioni industriali: non estemporanei annunci in materia salariale o sulla partecipazione agli utili avulsa da una base di argomentazioni solide, considerato che di ciò si parla da almeno quaranta anni.
Angelo De Mattia
Al di là dei tecnicismi, la scelta di Intesa Sanpaolo, su più fronti, mi sembra interessante anche per un’altra ragione: per migliorare la vita dei dipendenti, sia sul fronte dei salari sia sul fronte dei contratti, le vecchie associazioni sono più un intralcio che un aiuto. Tema da affrontare. Ci torneremo.
Al direttore - Caro Cerasa, ha pensato anche lei (come me) che quando il presidente Mattarella ha invitato i magistrati in tirocinio a rifuggire “da ricostruzioni normative arbitrarie, dettate da impropri desideri di originalità o, peggio, di individualismo giudiziario” si riferisse al reato di concorso esterno in associazione mafiosa?
Giuliano Cazzola
Ho pensato che Mattarella conosce bene la Costituzione. E sa bene che l’articolo 111 della Costituzione è lì a ricordarci ogni giorno che ogni processo si deve svolgere nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, all’interno di un percorso che garantisca alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e di avere diritto a una durata ragionevole del processo. E che un articolo della Costituzione di questo tipo rende incompatibile con il nostro sistema giuridico la presenza di magistrati desiderosi di rispondere più al tribunale del popolo che allo stato di diritto.
Al direttore - Caro Cerasa, il problema affrontato nel mio articolo sull’omelia di Delpini non è Berlusconi ma il cattolicesimo oggi, in particolare quello italiano. L’omelia è stata giustamente osannata dai giornali come documento politico, e lo meritava: è piaciuta a destra, ma non c’era niente che potesse dispiacere a sinistra. Un capolavoro nel suo genere. Ma io mi pongo un problema: era questo il fine dell’omelia per le esequie in un antico duomo, alla presenza si suppone di milioni di italiani? Era questo il messaggio che una Chiesa come quella italiana, in forte crisi, che da decenni non riesce a riaccendere il fuoco della fede, a dare una buona ragione per dirsi cristiani – a parte il volontariato e i poveri, ma quello lo fanno anche le ong – ha voluto mandare agli italiani? Che è brava a barcamenarsi in politica? Quello lo sappiamo da tempo. Siamo d’accordo, il cristianesimo non è moralismo e quindi il giudizio finale non è una risposta alle domande del catechismo, è un mistero. Ma è comunque previsto, non si può far finta di niente. E il problema della crescente divaricazione fra i comportamenti individuali e la morale cattolica è di tutti, non solo di Berlusconi. Ma è un problema serio da affrontare. Soprattutto ciò che manca, sempre, è la trasmissione del cuore del messaggio cristiano, che riguarda la vittoria sulla morte. Nessuno vuole più parlare di morte, si preferisce far finta che non esista, e la Chiesa si adegua parlando di amore e di felicità, anche davanti a una bara. Lasciando così tutti noi, credenti e non credenti, soli davanti al mistero che ci attende e ci accompagna, al quale solo la nostra religione osa dare una risposta. “De profundis clamavi ad te, Domine…”, le parole del salmo antico e sempre vero, un tempo al cuore delle cerimonie funebri e oggi eliminato – troppo triste? – sarebbero state certo più adeguate. Anzi secondo me addirittura necessarie.
P.S. Non sono una teologa, ma una storica. Inoltre avrei volentieri discettato – credo con competenza – sulle toilettes delle signore, ma sarà per un’altra volta.
Lucetta Scaraffia