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lettere al direttore

Confronto Calenda-Capone oggi alle 18 sui social del Foglio

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Giulio Meotti ha ricordato come il saggio di Orwell “1984”, pubblicato nel 1949 quale metafora del totalitarismo staliniano, riuscì avventurosamente a penetrare anche in Unione sovietica infrangendo la barriera della burocrazia comunista (il Foglio, “Orwell a Mosca”, 2 luglio). Ma la scomunica sovietica funzionò anche in Italia: il libro edito da Mondadori in parallelo alla pubblicazione a puntate sul Mondo di Mario Pannunzio (gennaio-maggio 1950), fu preceduto da un saggio di Benedetto Croce “La città del Dio ateo” (8 ottobre1949) corredato in prima pagina da una grande foto di Stalin: “Chi, come Orwell ha guardato il mostro e non si è perso d’animo … ha scritto il suo libro non certo per rendergli omaggio, ma per esortare a raccogliere le forze di resistenza di difesa e offesa, e perché non si dimentichi mai che nella attuazione di quel sistema totalitario accadrebbe qualcosa di immensamente più vasto e profondo della caduta della civiltà greco-romana”. “1984”  ebbe successo ovunque eccetto che in Italia: gli intellettuali di sinistra lo scomunicarono, le librerie lo boicottarono, e Togliatti lo stroncò “una buffonata informe e noiosa, strumento di lotta che uno spione ha voluto aggiungere al suo arsenale anticomunista apparsa in una sedicente rivista liberale” (Roderigo di Castilla, Rinascita n.1,1950). Bisognava aspettare molti anni e la scadenza dei diritti d’autore nel 2020 a 70 anni dalla morte di Orwell perché molte case editrici rilanciassero il libro (insieme a “La fattoria degli animali”) che, infine, ebbe anche in Italia un successo di segnalazioni e vendite.
Massimo Teodori  

   


    

Al direttore - In Italia il salario minimo legale avrebbe poco senso ove fosse in vigore l’articolo 39 della Costituzione, che, conferendo rango di legge agli accordi sottoscritti unitariamente dalle parti sociali in rappresentanza della maggioranza degli iscritti, ne assicurerebbe la validità erga omnes. Le grandi confederazioni sindacali si sono sempre opposte all’attuazione dell’articolo 39. Hanno preferito affidarsi alla prassi giurisprudenziale, che per molto tempo ha funzionato egregiamente in un regime di sostanziale monopolio della contrattazione. Ma oggi le cose sono cambiate. Secondo il Cnel, due terzi dei contratti nazionali censiti sono “pirata”, cioè stipulati da organizzazioni non rappresentative con livelli retributivi largamente inferiori a quelli dei settori di riferimento. Una realtà a cui si aggiunge quella del lavoro sommerso, particolarmente diffuso in agricoltura, in edilizia e nei servizi alla persona. Se non si vuole applicare la Costituzione “più bella del mondo” (già, ma perché?), il salario minimo può essere uno strumento utile, anche se non risolutivo, per contrastare il fenomeno dei “working poor”, ossia di quelli che lavorano ma che restano ai confini della povertà. Per funzionare, il valore del salario minimo deve essere però ben calibrato. Se troppo alto, risulterebbe infatti una forzatura per le aree più deboli. Se troppo basso, sarebbe inefficace nelle aree più forti. Quando se ne discusse all’interno del Jobs Act, si fece riferimento a una soglia oraria pari alla metà, o poco più, del salario mediano delle imprese italiane. Mi pare questo il criterio da adottare se le proposte avanzate dalle opposizioni vogliono essere credibili e sostenibili.
Michele Magno

Sul tema del salario minimo suggerisco una riflessione del nostro Oscar Giannino: si può decidere per legge senza tenere in alcuna considerazione l’andamento della produttività, di settore e aziendale, in un paese come l’Italia che da 25 anni vive in una produttività stagnante? Su questo tema oggi alle 18 sulle piattaforme social del Foglio Luciano Capone si confronterà con Carlo Calenda. Seguiteci. E portate i popcorn.

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