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Il pessimismo non risolve la transizione climatica. Lezioni

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - L’articolo di Simon Kuper sul Financial Times del 20 luglio scorso, da lei citato nel suo editoriale di lunedì 14 agosto (“Non sembrerà, ma abbiamo molte ragioni per essere ottimisti”), conclude con due frasi lapidarie. “Gli scenari ottimistici (sul clima) sono plausibili. Il nostro compito è quello di farli accadere”.

In effetti, il principale ostacolo alla transizione climatica sembra essere il pessimismo, oramai ampiamente diffuso nelle opinioni pubbliche a livello globale. 

Tale pessimismo deriva sostanzialmente da due fattori. Il primo è quello denunciato da Jim Skea, professore all’Imperial College di Londra, recentemente eletto nuovo presidente dell’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu, organo incaricato di valutare le basi scientifiche del cambiamento climatico, i suoi impatti e i rischi futuri. Skea ricorda che “il cambiamento climatico è una minaccia esistenziale per il nostro pianeta”, ma avverte altresì che “se si comunica costantemente che siamo tutti destinati all’estinzione, questo paralizza le persone e impedisce loro di prendere le misure necessarie per tenere sotto controllo il cambiamento climatico”. In effetti, è difficile mobilitare milioni – anzi miliardi – di persone, imprese, associazioni, governi, per convincerli a modificare i loro comportamenti se si parte dal presupposto che comunque “non ce la faremo” a rispettare gli impegni e che l’obiettivo di limitare l’innalzamento delle temperature non è raggiungibile. Questo pessimismo è tipicamente alimentato dalla mancanza di fiducia reciproca nella capacità di adattamento alle nuove esigenze. Un argomento molto utilizzato al riguardo, soprattutto in Europa, è l’atteggiamento lassista tenuto da grandi paesi inquinanti come la Cina o l’India, o gli stessi Stati Uniti. In altre parole, perché dobbiamo fare noi gli sforzi se sono gli altri a inquinare di più?

Il secondo fattore di pessimismo riguarda la capacità dei nostri sistemi economici e sociali di adattarsi ai requisiti e alle scadenze poste per azzerare le emissioni nette di CO2. In effetti, i costi di aggiustamento, per le aziende e per le famiglie, si annunciano molto elevati nei prossimi anni, a fronte di vantaggi non ancora pienamente compresi. Il timore oramai diffuso nella popolazione, che incide nel dibattito politico in molti paesi, è quello di dover supportare sacrifici troppo elevati nel breve periodo che non verranno compensati nel più lungo termine. Questo spinge larghe fette della popolazione e vari settori dell’economia a chiedere il rinvio delle scadenze e di adottare processi di aggiustamento più graduali, nella speranza che i costi della transizione si riducano nel tempo.

Entrambi i fattori di pessimismo sono inerenti ai processi decisionali decentrati, presi in situazioni di incertezza, nei quali il risultato collettivo dipende dal coordinamento e dall’allineamento di tutti i partecipanti. Questo è uno dei casi tipici per i quali, anche in una economia di mercato, è necessario un intervento pubblico che coordini le aspettative e l’operato dei singoli al fine di ridurre le esternalità negative che rischiano di compromettere il risultato aggregato.

Un esempio di tale coordinamento, che può aiutare a capire il problema, è l’azione svolta da Carlo Azeglio Ciampi come ministro del Tesoro del governo Prodi, alla fine degli anni 90, per portare il paese nell’euro. La combinazione dei due pessimismi illustrati sopra aveva portato l’Italia a mettere a rischio la propria convergenza verso i criteri concordati a Maastricht. Da un lato, si era diffusa nel paese la tesi che la moneta unica non si sarebbe mai realizzata, nonostante il Trattato firmato nel 1992, per l’avversione della Germania o per i presunti disaccordi tra quest’ultima e la Francia. Dall’altro, prevaleva la convinzione, fondata in ampi settori della società, tra cui i sindacati, le imprese, alcune frange di partiti politici e la stessa Banca d’Italia, che il sistema economico del paese non avrebbe retto il costo dell’aggiustamento necessario per entrare nell’unione monetaria. Era da molti ritenuto preferibile un rinvio della scadenza. Fu addirittura tentato un approccio con il governo spagnolo per concordare un’adesione differita. Solo l’azione determinante dell’allora ministro dell’Economia, successivamente eletto presidente della Repubblica, riuscì a convincere la parte più significativa della politica e della società civile che l’Italia poteva e doveva farcela. Fu adottata una Manovra fortemente restrittiva, di oltre 3 punti percentuali del pil, che consentì di ridurre il disavanzo pubblico sotto la soglia del 3 per cento. Ciò permise all’Italia di entrare nell’euro e di ridurre successivamente il costo del suo debito pubblico.

Le sfide della transizione climatica non sono così diverse per il nostro paese, che ha nel proprio territorio alcune delle zone più a rischio dell’Europa. Per riuscire ad affrontare tali sfide è necessaria la stessa capacità di leadership per sconfiggere la generale tendenza al pessimismo che tuttora caratterizza le nostre società. Ciò richiede una forte guida politica per convincere ciascuno a fare la propria parte, a cominciare da chi ha di più, nei paesi più avanzati. Richiede anche fiducia nella capacità innovativa del sistema capitalistico, adeguatamente incentivato, nel riuscire a produrre soluzioni tecnologiche adeguate. 

Il pessimismo e il negazionismo che minacciano il pianeta richiedono un ottimismo attivo, della volontà, che sia in grado di prendere decisioni difficili e di guidare la loro realizzazione.

Lorenzo Bini Smaghi

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